Se volete trascorrere una giornata curiosa e intrigante, oltretutto senza pagare il biglietto, dovete senz’altro andare all’Hangar Bicocca a Milano per immergervi nelle opere di Matt Mullican. Arriva il caldo e all’Hangar si sta bene. Potete anche fermarvi a mangiare al Bistrot all’ingresso. La mostra ha dell’incredibile. Occupa tutta la parte destra dell’Hangar. In quella sinistra c’è sempre Anselm Kiefer con i Sette Palazzi Celesti. Incredibile perché ci sono circa seimila (dico seimila) oggetti. Dai grandi ai minuscoli. Di tutti i tipi: installazioni, opere su carta, in vetro, frottage, video, performance, neon, multipli, lightbox, realtà virtuale, ossi, animali, foto, matrici tipografiche… Insomma, un mondo nel mondo, un’enorme Wunderkammer che piacerà a grandi e piccini (per i più piccoli dovete sapere che ci sono immagini esplicite).
Potete girovagare come in una foresta o in un grande magazzino in una sorta di divertente flânerie. Sembra di stare da Tati a Parigi dove tutto è in un disordine organizzato. Oppure potete immergervi nella cosmogonia dell’artista con i suoi rimandi e i suoi retropensieri. Ma in questo caso avrete bisogno di più tempo e magari resterete delusi. Se preferite potete fare tutte e due le cose. Quello che è certo è che ogni singolo oggetto di per sé è di scarso valore estetico. Acquista valore nell’integrità complessiva di tutto l’allestimento che risulta essere una grande opera in divenire che rappresenta oltre quarant’anni di lavoro dell’artista, dagli inizi degli anni Settanta a oggi.
Mullican è definito da Chris Wiley, nel catalogo della Biennale di Venezia 2013, un trasognato novello Don Chisciotte. Cerca sia di dare «un ordine al mondo, sia (di) visualizzare le discrepanze tra esperienza vissuta e realtà oggettiva». Lo so, state entrando nel panico; la questione diventa complessa. D’altronde qualcosa bisogna estrarre da questo magma differenziato. Anche perché, a dire il vero, l’artista stesso non aiuta, dato che rilascia dichiarazioni quali «amo lavorare per la verità e la bellezza». Una sorta di profeta illuminato, insomma. Difficile però credere che sia un novello Platone. Ma forse è più vicino a una concorrente di Miss Italia che sostiene di volere la pace nel mondo.
Matt Mullican nasce a Santa Monica in California nel 1951 e vive a Berlino e New York. Ha esposto, tra gli altri, al Metropolitan Museum di New York nel 2009, alla Tate di Londra nel 2007, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1988, alla Nationalgalerie di Berlino nel 1995, al Moca di Los Angeles nel 1989 e nel 1986.
L’esposizione milanese è divisa in cinque aree di diversi colori. Ogni area, posta simmetricamente all’interno della struttura complessiva, è circondata da un muro alto un metro. Le opere sono posizionate su tavoli, per terra o su piani di legno inclinati. Lo spazio è enorme (5500 metri quadrati) e l’artista si è dovuto impegnare per, come dice lui, «vestire la balena». L’area rossa è quella dedicata alla psiche; l’area nera alla comunicazione e al linguaggio; l’area gialla alla cultura, alla scienza e all’arte; l’area blu alla vita quotidiana e infine l’area verde rappresenta il mondo naturale della materia e degli eventi. La mostra termina nell’ultima sala a forma di cubo.
Area rossa. È quella della psiche e della soggettività. Qui incontriamo That Person che abbiamo già visto all’entrata negli stendardi appesi al soffitto con dentro numeri, testi, immagini e diagrammi. That Person è una sorta di alter ego dell’artista che all’inizio si chiamava Glen. Un personaggio immaginario, asessuato, che gli appare – o nel quale si identifica, o dal quale si sdoppia – durante le performance attuate in stato di trance o di ipnosi. È lui che crea questi viaggi e queste opere.
Area nera. Questa è dedicata alla comunicazione e al linguaggio. Mullican indaga il mondo materiale e la sua costruzione psicologica. In pratica quello che vediamo e quello che pensiamo di quello che vediamo. Nelle immagini, tratte da fumetti, l’artista entra nel personaggio rappresentato prima che questo faccia parte della storia. «Tutto è astratto, dice, è possibile costruire la realtà solo attraverso la nostra storia e cultura». Che cosa è la vita? Che cosa è la morte? si chiede. Per scoprirlo entra nella vita di un cadavere – una persona non più in vita ma che è vissuta – e nello stesso tempo di una bambola, un oggetto inerte ma che per noi vive di una vita propria. Ora entra in scena Glen, il suo alter ego. Le fantasie dell’artista partono da quando era bambino e si interrogava sulla vita e sulla morte. È il destino che le lega? Dove ero prima di nascere? Dove sarò dopo la morte? In paradiso o all’inferno?
Area gialla. Siamo al centro del percorso, in un rettangolo. Mullican indaga l’arte, la scienza e la cultura; il mondo non è più simbolico ma reale. Questa zona è divisa in cinque sottozone, con cinque diversi livelli di significato, rappresentati da ulteriori cinque colori. Il verde legato a elementi naturali e materiali; il blu alla vita quotidiana; il giallo alle arti e alle scienze; il nero al linguaggio e il rosso alla spiritualità.
Area blu. Siamo nel mondo della vita quotidiana e della città. Dal 1986 Mullican lavora con una società informatica per realizzare una mappa virtuale della sua città ideale. Computer Project, è il titolo del progetto realizzato fra il 1986 e il 1990. All’interno di questa città troviamo ristoranti, negozi, ospedali... Gli anni successivi realizza Five into One con una tecnologia più potente e avanzata che gli permette di entrare in un ambiente virtuale e passeggiare nella sua camera. In quest’area troviamo un box giallo (dove non si può entrare) che contiene gli oggetti reali appartenenti all’altro Mullican: un letto, una sedia, una pentola, una radio...
Area verde. La Grande Navata si conclude con l’area verde che rappresenta il mondo naturale della materia e degli elementi. Qui troviamo ossi, animali impagliati, insetti, semi. Tutto il suo mondo. Poi una serie di cartoncini colorati che esposti a differenti fonti di luce cambiano la percezione del colore originario a dimostrazione che questo non è determinato in sé, ma è solo una nostra rappresentazione.
Per finire troviamo il cubo – che altro non è che l’ultima grande sala dopo la navata – che l’artista ricopre completamente di rubbing: una tecnica che include pittura, disegno, stampa. Serve a rappresentare l’idea centrale dell’artista e cioè che il mondo non è quello che vediamo ma la sua ombra. Un po’ come nella famosa immagine della caverna di Platone. «Ciò che osservo, quello che qualsiasi occhio percepisce – precisa l’artista – altro non è che un’immagine sulla retina: ma il mondo reale non è così. Il rubbing rappresenta quello che l’occhio vede: è il rilievo». Al centro del cubo 449 tavole tratte dalla New Edinburgh Encyclopedia, un’enciclopedia del 1825 replicata su lastre di magnesio.
Nella sala antecedente il grande spazio dedicato a Mullican possiamo vedere, fino al 22 luglio, la mostra di Eva Kot’átková The Dream Machine is Asleep le cui opere, legate a una sorta di Dadaismo e Surrealismo, si snodano fra collage, sculture, fotomontaggi, video, performance, disegni e installazioni.