In varie occasioni Carlo Cecchi ha dichiarato che Eduardo De Filippo è una delle quattro persone più importanti della sua vita (le altre tre sono sua madre, Elsa Morante e Cesare Garboli). Con Eduardo, negli anni Sessanta, Cecchi ha preso parte a una messinscena de Le voci di dentro, di Sabato, domenica e lunedì, e per qualche tempo alle prove di una nuova commedia, Il monumento, che debuttò nel 1970, quando lui aveva già lasciato la compagnia. Perché l’aveva lasciata? «Perché non sopportavo» mi ha detto in un’intervista nel 2007 «gli aspetti di un capocomicato estremo, freddo, tirannico. (…) Eduardo era più interessante fuori dalle prove che durante il lavoro teatrale».
Ciò nondimeno, un attore grandissimo, e un uomo di teatro straordinario, «a lui devo in un certo senso la spinta a recitare in napoletano». Di Eduardo, l’attore-regista fiorentino ha inscenato e interpretato più volte il celebre Sik-Sik, l’artefice magico, accoppiandolo a un altro atto unico: Le nozze di Cechov, il «dramoletto» di Thomas Bernhard Claus Peyman compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me, e in questa stagione Dolore sotto chiave, un radiodramma del 1958 che Eduardo portò sulla scena nel ’64.
A giudizio non solo di Cecchi, Sik-Sik, l’artefice magico è un piccolo capolavoro, ed è nei panni del suo protagonista che Eduardo – 52 anni dopo averlo concepito – si congedò definitivamente dalle scene, nel 1981. Presentando l’edizione televisiva del 1° gennaio 1962, l’attore-regista-drammaturgo napoletano dichiarava: «Quando mi chiedono qual è il personaggio di una commedia che io ami di più, io fingo imbarazzo, cerco di eludere (…) e faccio così per un senso di delicatezza, per non urtare contro il gusto della persona che mi interroga. Ma qui, di fronte a una platea tanto vasta e così esclusa da ogni constatazione immediata, io sento il dovere di dire la verità. Il personaggio che più mi sta a cuore, che più amo, è Sik-Sik, l’artefice magico».
Chi è Sik-Sik? È un prestigiatore squattrinato che compare indossando, come si legge nella didascalia iniziale, «una giacca chiara e poco pulita su di un pantalone nero: quello del frac che gli servirà per la rappresentazione. Ha in mano una piccola valigia e nell’altra una gabbia con due colombi uguali. Fra le labbra un mozzicone di sigaro. (…) È seguito da Giorgetta, sua moglie, a testa nuda e con un misero cappottino sulle spalle». Giorgetta è la sua aiutante, è incinta, e come il marito ha «una certa aria scoraggiata e stanca». Sik-Sik è in grande tensione perché manca poco all’inizio dello spettacolo e non si è ancora fatto vivo Nicola, il «cumpare» che gli fa da spalla fingendosi uno spettatore. Terribilmente preoccupato, Sik-Sik ingaggia lì per lì un altro poveretto, Rafele, e cerca di istruirlo rapidamente su ciò che dovrà fare. All’improvviso arriva Nicola. Tra i due aiutanti scoppia un litigio che avrà serie ricadute sull’andamento dello spettacolo. Non vado oltre nel riassumere una farsa i cui temi di fondo sono la povertà e l’inganno, ed è al tempo stesso amara e divertente.
Straordinario nei panni di Sik-Sik, Cecchi è irresistibilmente esilarante in quelli del professor Ricciuti, uno dei coinquilini che in Dolore sotto chiave (dove i temi della morte, del lutto e delle esequie sono declinati in modo comico e drammatico) si presentano in gruppo per fare le condoglianze all’architetto Rocco Capasso, a cui la sorella Lucia – temendo che il fratello potesse compiere gesti estremi – ha nascosto per undici mesi la morte della moglie Elena.
La regia di Cecchi è precisa, sobria, rispettosa del testo, attentissima ai ritmi della rappresentazione. Da sempre, Cecchi dice di considerarsi, più che un regista, un direttore di attori. Si può ben dire: un direttore d’eccezione, come dimostrano le singole prestazioni e l’affiatamento degli altri interpreti: Angelica Ippolito (Giannetta e Lucia), Vincenzo Ferrera (Nicola e Rocco Capasso), Dario Rubatti (Rafele e la signora Paola), Remo Stella e Marco Trotta (due coinquilini).
Cecchi sostiene da decenni che nel teatro sono tre le cose che contano: il drammaturgo, l’attore, il pubblico: un convincimento che ha fermamente riaffermato in dichiarazioni recenti. «Salvo rarissime eccezioni», mi diceva nella summenzionata intervista del 2007, «i registi degli ultimi cinquant’anni se ne fregano del drammaturgo, se ne fregano dell’attore, se ne fregano del pubblico, perché pensano di essere tutti e tre». A questo punto ho azzardato una definizione sintetica: «Un regista-demiurgo, come dicevano qualche tempo fa gli addetti ai lavori». La reazione è stata immediata: «Ma quale “demiurgo”! “cretino”!»