Alla 74° Mostra del cinema di Venezia, che ha parlato in buona parte americano, il tema ricorrente e scottante è stato il razzismo. In un’annata memorabile per il cinema afroamericano, con gli Oscar a Moonlight e a Barrier e al documentario O.J.: Made In America oltre al successo dell’horror Get Out!, la questione razziale torna insistentemente sullo schermo. I sei film di produzione statunitense, oltre che nei due inglesi ambientati negli Usa, hanno esplorato la società americana nelle sue paure, le sue contraddizioni e nei suoi aspetti peggiori, con risultati interessanti e mediamente di buon livello.
La bella commedia nera Suburbicon di George Clooney, da un’ispirata sceneggiatura dei fratelli Coen, dipinge un Paese che ha creduto di costruirsi come comunità ideale e vorrebbe continuare a raccontarsi come tale, pur contenendo al suo interno elementi di follia, malessere e violenza, mentre cerca di dare la colpa ai diversi.
La sesta regia del divo è un quadro cupo che affida un filo di speranza solo ai ragazzini. Siamo nel 1959 a Suburbicon, cittadina modello fondata 12 anni prima e abitata da famiglie borghesi, sorridenti e ottimiste. L’arrivo della famiglia di colore Mayers turba l’apparenza e fa cambiare tutto: la reazione dei residenti è immediata e violenta e, per non farli vedere dal vicinato, è fatta erigere una palizzata intorno alla loro casa. Solo il bambino Nicholas Lodge supera il pregiudizio giocando con un coetaneo nuovo venuto. La notte seguente una coppia di uomini armati irrompe nella sua casa, sequestra il ragazzo insieme a il padre, la madre, in sedia a rotelle per un incidente, e la zia.
Per le conseguenze dell’aggressione la moglie muore e il marito Gardner, dirigente d’industria in carriera, sceglie di mettere a tacere tutto e riprendere una vita normale con cognata e figlio. Un agente delle assicurazioni intuisce che qualcosa non va e fa venire a galla la verità. Intanto per le strade e i cortili non si placano le proteste che ricordano quelle recenti di Charlottesville. Clooney bilancia le due componenti del film e le fa dialogare, creando una commedia impietosa dai tempi perfetti e alcuni momenti esilaranti. Oltre a Julianne Moore sdoppiata magnificamente nelle due sorelle, «l’americano medio» Matt Damon è perfetto per la parte da cattivo come lo era stato nella pellicola d’apertura Downsizing di Alexander Payne, anche qui racconto di una città ideale che tale non è.
Il regista di Sideways dipinge gli scenari preoccupanti sul futuro, i cambiamenti climatici o la riduzione delle risorse naturali, dal punto di vista della sovrappopolazione. Per limitare l’impatto umano sul pianeta, una società propone di miniaturizzare le persone a circa 12 centimetri. Una coppia decide di affrontare la trasformazione, ma, al momento fatidico, la moglie si tira indietro e il marito si ritrova solo in questo aldilà. La prima parte della pellicola è molto interessante, poi il regista mette molta carne al fuoco e punta a risolverlo con il suo abituale viaggio e l’alternanza di risate e commozione, ma l’equilibrio tra i registi è precario e anche il rimpicciolimento forse non è proprio la soluzione giusta.
Le questioni ambientali, con la paura del futuro accompagnata da una buona dose di paranoia, tornano nell’ottimo Fist Reformed di Paul Schrader, uno dei migliori lavori del concorso e anche della carriera del regista. La più antica chiesa riformata di Albany, quella del titolo, sta per festeggiare i 250 anni. Il reverendo Toller (Ethan Hawke) è un ex cappellano militare distrutto dal dolore per la morte in guerra del figlio, che aveva convinto ad arruolarsi. La sua crisi è tamponata dall’ordinaria amministrazione, finché incontra Michael, ambientalista invasato e sovversivo, spaventato dall’avvenire tanto da voler convincere la moglie ad abortire la figlia che aspetta. Un crescendo di dolore per un film di diavoli, tentazioni e abissi, dal regista noto per la sceneggiatura di Taxi Driver, implacabile e asciutto, con lo sguardo al cinema di Robert Bresson, Carl Dreyer e Ingmar Bergman.
Razzismo, violenza e richiesta di giustizia tornano in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, molto acclamato a Venezia, forse più dei suoi meriti. Una commedia nera scritta e diretta dal regista di In Bruges e 7 psicopatici, forse troppo debitrice al cinema dei Coen, a partire dalla bravissima protagonista Frances McDormand nei panni di una madre in cerca di giustizia. Ossessionata dall’uccisione e dallo stupro della figlia Angela: all’ingresso della cittadina fa affiggere giganteschi manifesti che chiedono verità e accusano di immobilismo lo sceriffo. Anche qui false piste e spiazzamenti, con scene divertenti, una storia ben scritta, con qualche forzatura ma personaggi ben definiti. Una realtà di omofobia e razzismo, con un poliziotto senza scrupoli che non si vergogna di torturare la gente di colore: «Io torturo i negri? Non si dice più negri, si dice gente di colore».
Aleggiano fantasmi e paure di guerra fredda in The Shape of Water di Guillermo Del Toro, un fantastico d’autore, romantico e cinefilo, ambientato nel 1960, che guarda a Spielberg e Burton.