Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt / «Cambia cielo, non animo chi si precipita al di là del mare». (Orazio, Epistole, I, 11, 27) Con questo verso Orazio denuncia l’illusorio rapporto tra viaggi e serenità d’animo.
Quello dell’inutilità dei viaggi come espediente per scacciare il peso che grava sull’animo è un tema diffuso nella letteratura classica, che veniva fatto risalire nientemeno che all’autorità di Socrate: «A un tale che si lamentava» che i viaggi non gli avessero per nulla giovato tramandano che Socrate abbia risposto: «perché ti meravigli che i viaggi non ti rechino alcun giovamento, dato che porti in giro te stesso?» (Seneca, Lettere a Lucilio, 28, 2; considerazioni simili anche nella lettera 104, specialmente ai parr. 13 ss.). L’aneddoto socratico segnala appunto l’antichità del tema, comune a più scuole filosofiche. Nella letteratura latina esso aveva trovato espressione, prima che nello stoico Seneca, in due autori riconducibili – il primo come seguace ortodosso, il secondo come simpatizzante – alla tradizione epicurea: Lucrezio e Orazio.
Così Lucrezio descrive la smaniosa irrequietezza di chi cerca di sfuggire alla noia (taedium) con i continui spostamenti: «Se gli uomini, come sembrano avvertire nell’animo un gran peso che con la sua gravezza li opprime, potessero anche conoscere da quali cause esso derivi [...], non vivrebbero così, [...] cercando sempre di mutar sede, quasi che con ciò potessero deporre quel peso. [...] In questo modo ciascuno fugge da sé, ma poiché ovviamente al proprio io non può sfuggire, contro voglia gli rimane attaccato e lo detesta, perché, ammalato, ignora la causa del suo male» (De rerum natura, III, 1053-1070).
Assai simile al taedium lucreziano è l’«irrequieto torpore» (strenua inertia) a cui Orazio riconduce la smania di viaggiare: «Se la ragione e la saggezza, e non un luogo dominante un’ampia distesa di mare, eliminano le ansie, cambia cielo, non animo chi si precipita oltremare. Un irrequieto torpore ci travaglia: cerchiamo la felicità con le navi e con le quadrighe. Ciò che cerchi è qui, è a Ulubre (uno sperduto villaggio laziale) se non ti abbandona l’equilibrio dell’animo» (Epistole, I, 11, 25-30).
«Perché andiamo in cerca di terre scaldate da un altro sole? Chi, esule dalla patria, cerca di fuggire anche da se stesso? Sale sulle bronzee navi l’Ansia morbosa, e non lascia gli squadroni della cavalleria, più veloce dei cervi e più veloce di Euro che sospinge le nubi» (Odi, II, 16, 18-24).
Nella società contemporanea viaggiare appare sempre più un bisogno primario: vi concorrono le allettanti offerte dei voli low cost, le trasmissioni televisive e non da ultimo le pubblicità dei tour operators. Questa smania di viaggiare «per il gusto di viaggiare» (per usare un’espressione di R.L. Stevenson, Travels With a Donkey) al di là della scelta della meta (purché possibilmente remota ed esotica), è stata recentemente considerata alla stregua di una vera e propria patologia e le è stato attribuito il nome di «Sindrome di Wanderlust»: si tratta appunto del «piacere di vagabondare» fine a se stesso, la cui origine secondo alcuni studiosi sarebbe da ricercare nella presenza, nel DNA del 20% dell’umanità, del recettore della dopamina D4, detto anche «gene del viaggio».
Di fronte a questa interpretazione «panbiologica» io preferisco aggrapparmi all’(ingenua?) convinzione che l’impulso «odissiaco» a conoscere nuovi luoghi e a fare nuove esperienze – mirabilmente sintetizzato da Dante nell’apostrofe di Ulisse ai suoi compagni: «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza (Inferno, XXVI, 119-120) – sia un elemento costitutivo dell’essere umano.
Del resto, questo «desiderio dell’altrove» (Fernweh) coesiste con l’opposto sentimento dello Heimweh, lo struggente desiderio di ritornare nel proprio ambiente, insomma la nostalgia.È significativo che l’Odissea, il poema archetipico dei viaggi avventurosi, sia anche e soprattutto il poema del nostos (ritorno) di Ulisse nella sua «petrosa Itaca».