Bryan il dandy

L’irresistibile leggerezza dell’eleganza: le eccentriche cover version anni 70 di Bryan Ferry rivivono nel suo nuovo (ma datato) album dal vivo
/ 09.03.2020
di Benedicta Froelich

A volte, in tempi convulsi come quelli attuali, in cui l’eleganza formale degli interpreti musicali di spicco potrebbe sembrare un semplice ricordo del passato, appare legittimo e benefico rivisitare un artista quale il britannico Bryan Ferry, irrimediabilmente legato a doppio filo a quell’immagine da crooner un po’ old-fashioned su cui ha costruito una carriera ormai cinquantennale. E chissà se proprio questo è lo spirito con cui la BMG ha appena dato alle stampe uno storico documento live come il concerto tenuto presso la Royal Albert Hall di Londra nel 1974 – giusto all’apice della popolarità di Bryan, all’epoca sulla cresta dell’onda grazie al patinato, eppure travolgente, repertorio della band dei Roxy Music, da lui capitanata tra il 1970 e il 2011: una forma di soft-rock melodico tipicamente «seventies», eppure anche personale, in quanto caratterizzata dal gusto di Ferry per l’eleganza demodé e per una raffinatezza musicale e stilistica che, lungi dall’infiacchirne il materiale, ne pervadeva e valorizzava ogni studiatissimo arrangiamento. Non deve quindi stupire che un performer tanto elegantemente «vintage» abbia sempre coltivato un’intima passione per gli standard del Great American Songbook degli anni d’oro; passione peraltro già ben nota ai suoi fan, avendo Bryan pubblicato, proprio tra il 1973 e il ’74, i due notevoli album di cover These Foolish Things e Another Time, Another Place – ai quali, anni dopo, sarebbe poi seguito un terzo capitolo (As Time Goes By, 1999).

È da questa branca del repertorio dell’artista che nasce Live at the Royal Albert Hall 1974, tratto da quello che è stato il primo tour nella carriera solista di Ferry, di fatto inaugurata proprio dai due dischi sopraccitati. Così, a rendere unica questa particolare serata – oltre alla presenza sul palco degli altri membri dei Roxy Music come backing band – è il fatto che la scaletta è quasi interamente costituita da cover versions; e il desiderio di seguire le tracklist dei dischi di Bryan fa sì che ai classici del songbook jazz e americano si affianchino brani pop-rock risalenti a pochi anni prima – tutti accomunati dal fatto di essere stati scelti in base a una più o meno dichiarata preferenza personale di Ferry, indipendentemente dal sound o dal genere d’appartenenza. E i risultati, bisogna dirlo, sono ben più che semplicemente creativi – in effetti, quasi sconcertanti.

Del resto, «geniale» è l’unico termine che sia possibile applicare a cover versions di altissimo livello come quella – irriverente e provocante, eppure, nel contempo, estremamente rispettosa dello spirito dell’originale – di un brano complesso e, di fatto, «difficile», come l’amaro e post-apocalittico A Hard Rain’s A-Gonna Fall, a firma di Bob Dylan: una scarna e minimalista ballata folk, che nelle mani di Bryan diventa un esercizio di stile a dir poco destabilizzante. Lo stesso approccio caratterizza anche la traccia d’apertura del CD, una rivisitazione incendiaria di Sympathy for the Devil, cavallo di battaglia dei Rolling Stones che Ferry sceglie saggiamente di non alterare più di tanto; proprio come accade con You Won’t See Me, uno dei pezzi meno noti dei Beatles prima maniera.

In effetti, questa setlist si differenzia in modo marcato dallo stile ben più «refined» dei Roxy Music, essendo composta da brani per molti versi più spontanei, suonati e interpretati con foga a tratti perfino cruda, come se il cantante in questione fosse un arrabbiato teddy boy appena ventenne, magari immortalato sul palco di un club underground londinese e posseduto dall’urgenza di mostrare ciò che sa fare (si vedano gli ammiccanti e sfrontati Fingerpoppin’, The «In» Crowd e It’s My Party).

Certo, il rischio insito in una simile scelta stilistica è quello di rimuovere gran parte delle sfumature emotive di cui gli originali sono intrisi per «uniformarli» nel calderone di un unico delirio rock dai toni spesso un po’ egocentrici – e in effetti, i pezzi originariamente più lenti e delicati, quali le «oldies» These Foolish Things e Don’t Worry Baby, finiscono per risentire di questa immersione un po’ anacronistica nel glam-rock più sfrenato; per fortuna, la combinazione funziona meglio nel caso di pezzi più ritmati – su tutti, The Tracks of My Tears, I Love How You Love Me e Smoke Gets in Your Eyes, qui distinti da una fusione perfetta tra ironia e sentimento, proprio come si addice allo stile innato di Bryan.

Così, anche in questo caso, il Nostro non può che riuscire comunque ad ammaliare il pubblico con la collaudata affabilità di sempre: e la disinvoltura e sicurezza che pervadono l’intero set live sono sufficienti a fare di Live at The Royal Albert Hall 1974 un documento imperdibile per ogni ammiratore di quest’artista, certo definibile come l’imperturbabile «gentleman britannico» per eccellenza del rock: un performer che, avendo sempre scansato la facile visibilità garantita dal gossip e dall’egocentrismo più spicciolo, non è mai venuto meno al (geniale) personaggio da lui stesso creato.