Dove e quando
Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 22 novembre. www.elfo.org


Bruciare i libri o morire di freddo?

Un dramma di Amélie Nothomb (e un omaggio a Glauco Mauri)
/ 12.11.2018
di Giovanni Fattorini

Autrice prolifica di romanzi e racconti, Amélie Nothomb ha scritto un solo testo teatrale, Les Combustibles (1994). Tradotto in italiano col titolo Libri da ardere, il dramma è stato adattato e messo in scena nel 2006 da Cristina Crippa, attrice e cofondatrice del Teatro dell’Elfo, diventata nel corso del tempo anche autrice e regista. Accolto con grande favore, lo spettacolo è stato replicato all’Elfo e in tournée fino al 2010. Dodici anni dopo il suo debutto (al Festival di Asti), Libri da ardere è stato ripreso, con due cambiamenti nel cast (gli attori sono tre) e con rinnovato successo di pubblico.

Siamo in una città senza nome, stremata dal gelo invernale e dal prolungato assedio di imprecisati nemici che i personaggi del dramma chiamano «i barbari». L’azione si svolge interamente in una stanza della casa di un docente universitario di letteratura (un uomo sarcastico e arrogante) che ospita il suo assistente, Daniel (la cui abitazione è stata distrutta) e una giovane allieva, Marina, amante di turno di quest’ultimo (le relazioni sentimentali di Daniel hanno la durata di un anno accademico).

Fisicamente fragile, forse anoressica, Marina è tormentata dal freddo che ha invaso la casa del professore, dove tutti gli oggetti di legno, ad eccezione di due sedie, sono già stati bruciati per riscaldare l’ambiente. In tono fra l’angosciato e lo scherzoso, Marina propone di usare come combustibile i numerosi libri che si trovano nella stanza del soggiorno: sarà anche una specie di gioco: un modo di rispondere concretamente alla domanda: «che libro distruggeresti con minor dolore?».

Il professore reagisce con sdegno alla proposta («il giorno in cui saremo costretti a bruciare dei libri vorrà dire che avremo perso sul serio la guerra»). Ma la fame, il freddo, il desiderio di sopravvivere finiscono col prevalere. La situazione di emergenza e il bruciamento dei libri (i cui titoli e i cui autori sono tutti inventati) modificano e smascherano i rapporti sentimentali e di potere fra i tre personaggi; alterano i giudizi di merito e le immagini di sé. Nei dialoghi variamente ritmati (con momenti di tensione e di accensione che arrivano allo scontro fisico), i tre parlano, fra l’altro, di guerra, di letteratura, del rapporto tra arte e vita. Quando rimane un solo volume da bruciare, non è il suo valore letterario ciò che conta. Quel libro superstite è una testimonianza dell’umano, della capacità di pensare e immaginare. E a difenderne la sopravvivenza contro la volontà egoisticamente distruttrice del cinico professore è la fragile e ostinata Marina.

Costruito con perizia e adattato con intelligenza, il dramma di Amélie Nothomb coinvolge costantemente lo spettatore grazie a una commistione di serietà e umorismo, di fisicità e astrazione, valorizzata appieno dal ritmo incalzante della regia di Cristina Crippa, dall’interpretazione del bravissimo Elio De Capitani (già presente nell’edizione del 2006), e da quella dei due bravi, giovani attori: Carolina Cametti (Marina) e Angelo Di Genio (Daniel).

E ora vorrei rendere brevemente omaggio a un attore che giovane non è: a Glauco Mauri, che ha 88 anni e per dodici giorni, al Piccolo Teatro Grassi, ha interpretato il cieco e paralitico Hamm nel beckettiano Finale di partita messo in scena da Andrea Baracco. (Accanto a lui, bravissimo nel ruolo di Clov, Roberto Sturno, compagno d’arte da 37 anni).

Samuel Beckett occupa un posto di particolare rilievo nella formazione culturale e nella carriera artistica di Mauri, che considera la lettura di Molloy (il romanzo che inaugura la cosiddetta «trilogia» dello scrittore irlandese) uno degli incontri più importanti della sua vita. Nel 1961 – suscitando reazioni vivissime – Mauri è stato il primo in Italia a interpretare, sotto la direzione di Franco Enriquez, L’ultimo nastro di Krapp, un testo che nell’arco di sei decenni ha affrontato diverse volte, rendendo sempre più credibile e toccante la figura e il soliloquio di un uomo che ascolta la propria voce registrata nel corso del tempo su numerosi nastri magnetici.

Dello spettacolo che ho visto al Piccolo Teatro vorrei ricordare a lungo il tono di voce e il gesto di stizzoso e sadico tiranno con cui Hamm, a intervalli irregolari, reclama e getta lontano da sé il cane di peluche che il vessato Clov sta confezionando per lui. Sono momenti che da soli valgono a illustrare la singolarità e il livello di un attore. E vorrei ricordare l’immagine balenata a spettacolo concluso. Durante gli applausi finali, alla quarta chiamata, il sipario si è riaperto prima del dovuto, e gli spettatori hanno colto il grande attore con un’espressione di sorpresa sul volto mentre si dirigeva a passo lento, quasi a fatica, verso le quinte. Di colpo l’ho rivisto nei panni di re Lear, di cui Hamm, secondo Jan Kott, è una versione degradata.