Per quei rari, invidiati personaggi che, già in gioventù, hanno avuto la fortuna di assurgere a uno status pressoché mitico nell’ambito della scena rock internazionale, non vi è dubbio che, superata la temuta boa della mezza età, l’orgoglio personale e il peso di un ego a tratti ipertrofico si trovino spesso a guerreggiare con il senso di responsabilità e l’ansia derivanti dalle crescenti aspettative di un pubblico sempre più ampio e variegato. Fortunatamente, a volte la spinta creativa più profonda ha la meglio sul timore di deludere gli aficionados tramite scelte troppo azzardate; e accade così che alcuni recenti lavori di vere e proprie leggende del rock abbiano beneficiato di simili «combinazioni fortunate», dando vita a piccoli miracoli compositivi.
Fortunatamente, è questo il caso anche del nuovo sforzo solista di Bruce Springsteen – il quale, ad appena pochi mesi dal monumentale live album Springsteen on Broadway, autocelebrazione della propria vita e carriera, ha deciso di tornare alla ribalta con un disco quantomeno anticonvenzionale. Questo Western Stars costituisce infatti un intrigante esperimento stilistico, in quanto, rispetto alle più recenti opere del Boss, presenta un irresistibile sapore vintage, ammantato da reminiscenze della musica che lo stesso Springsteen deve aver ascoltato con stupore e meraviglia crescenti nella sua lontana infanzia americana.
Ecco quindi, nella loro apparente, ingannevole semplicità, pezzi sognanti e quasi pop come The Wayfarer e Sundown e, soprattutto, Hello Sunshine, che richiama da vicino lo storico Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson – e in effetti, proprio come il brano che graziava la colonna sonora di Un uomo da marciapiede, anche questa canzone si presenta come solo apparentemente dolce e spensierata, poiché le liriche cadenzate nascondono in realtà una riflessione sulla lotta interiore contro la depressione clinica più volte sperimentata dallo stesso Springsteen («t’innamori della solitudine / e finisci per ritrovarti solo»).
L’intera tracklist è così imperniata sulla contaminazione di generi, come dimostrato anche da Tucson Train, terzo singolo estratto dal CD, e da brani in stile «road trip» quali Hitch Hikin’ e Drive Fast (The Stuntman), in cui risalta il debito che il Boss deve alla musica statunitense dei bei tempi andati; e non soltanto, come sarebbe facile supporre, al rock’n’roll o al folk impegnato, ma perfino a un genere che, apparentemente, potrebbe apparire a lui meno congeniale – ovvero, quello del soft country-rock anni 50-60, miscelato con un distinto sapore retrò a base di violini dagli accenti romantici, passaggi orchestrali in stile vintage pop e sonorità da film western di sapore epico.
Le suggestioni languide e demodé avvolgono così la voce di Bruce come se, anziché con un rocker del New Jersey, avessimo a che fare con un crooner da sala da ballo d’altri tempi. Lo stesso sapore nostalgico e «antico» pervade anche il commovente Moonlight Motel e la memorabile title track Western Stars, intrisa di una malinconia country tipicamente nordamericana, davanti alla quale l’ascoltatore ha quasi l’impressione di riuscire a percepire su di sé il respiro del vento del Midwest – soprattutto grazie all’epico bridge strumentale, degno di un film hollywoodiano (si noti l’ammiccante accenno a John Wayne).
Del resto, le suggestioni di stampo fortemente narrativo che caratterizzano il disco hanno già portato molti critici a definire Western Stars come «incredibilmente cinematografico», quasi si trattasse di un’ideale colonna sonora dell’America più profonda; o, forse più verosimilmente, del definitivo tributo di Bruce al sound made in USA che ha segnato la sua intera vita. Sensazione confermata anche da altri brani di stampo eroico eppure rassegnato (Stones e lo struggente Chasin’ Wild Horses); senza trascurare il suadente There Goes My Miracle, ballata romantica dal sapore disilluso eppure, allo stesso tempo, irresistibilmente ingenuo, in cui il Boss si produce in un cantato che segue le modulazioni anni 50 tipiche di un mostro sacro del genere «romantic vintage» quale il mitico Roy Orbison, palese ispirazione dietro alcune tracce del CD.
Certo, a quasi settant’anni non è sempre facile dire qualcosa di nuovo, evitando di ripetersi o adagiarsi mollemente sugli allori di una lunga carriera; eppure, con quest’album, Bruce è riuscito a prodursi in qualcosa di inaspettato, lasciando da parte l’egocentrismo da superstar mondiale convinta di non aver più nulla da dimostrare, per rivolgersi invece ai suoi fan con la sincerità del consumato cantastorie. Proprio il ruolo che, più d’ogni altro, è tuttora più congeniale all’artista; e che gli ha permesso di rendere Western Stars un piccolo capolavoro di storytelling a stelle e strisce.