Nonostante le delusioni calcistiche, il Brasile resta protagonista dell’estate grazie a varie iniziative culturali che confermano l’interesse per questo paese di grandi conflitti e profonde contraddizioni. Nel panorama delle mostre d’arte milanesi, spicca Brasile. Il coltello nella carne, al PAC fino al 9 settembre, che riunisce trenta artisti di diverse generazioni, attivi dagli anni Settanta in poi, con oltre cinquanta opere tra installazioni, dipinti, fotografie, video e performance.
Il titolo della collettiva, curata da Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo, è tratto da una pièce dello scrittore Plínio Marcos, Navalha na carne, che fin dalla prima messa in scena nel 1967 fu bersaglio di diversi tipi di censura. Trattandosi di una nazione storicamente segnata dalla violenza coloniale e dalla dittatura, e ancora oggi da corruzione, discriminazione razziale e miseria, non stupisce che il rapporto tra arte e politica sia al centro dell’attenzione.
L’incidenza dell’arte sulla società, purtroppo, è però poca o nulla. Come ha avuto modo di dire la grande scrittrice brasiliana Clarice Lispector: «Scrivo senza speranza che ciò che scrivo possa cambiare le cose». È una triste verità, della quale è però meglio prendere atto, perché la forza di un artista viene anche dalla consapevolezza che l’atto creativo è fondamentalmente gratuito e che le opere d’arte sono inutili, cioè non utilizzabili. In un mondo nel quale tutto viene fatto in funzione di uno scopo e deve dare risultati tangibili, misurabili, non riesco a immaginare niente di più sovversivo.
Le opere esposte al PAC tendono verso la militanza, ma Crivelli Visconti nel saggio che apre il catalogo invita a spingersi oltre, convinto «che il visitatore sia in grado di cogliere le relazioni più sofisticate e non solo quelle immediate e superficiali». Da qui anche la scelta di evitare i pannelli esplicativi, sebbene all’entrata venga consegnato un opuscolo che dedica mezza pagina a ciascun artista e all’opera esposta. Tenerselo a portata di mano non guasta, perché anche i lavori più autonomi se contestualizzati ci guadagnano.
Le fotografie tratte dalla serie Empossamento (Insediamento, 2003) di Mauro Restiffe, che occupano l’intera parete all’entrata della mostra, con il loro bianco e nero sgranato sono di grande impatto visivo: una squadriglia di aerei militari in parata sorvola una piazza ordinata, che negli scatti successivi è via via invasa da una folla sempre più incontrollabile, finché il contrasto tra la confusione, i rifiuti lasciati a terra e l’asettica architettura modernista degli edifici si fa stridente. Sapere che si tratta di Brasilia nel giorno dell’insediamento di Lula dà la possibilità di coglierne maggiormente la portata.
Lo stesso può dirsi della delicata serie di disegni This is not an apricot (Questa non è un albicocca, 2008) di Maria Thereza Alves: un’infilata di frutti esotici identificati con il loro nome latino che, si scopre, nasce da un’esperienza vissuta in un mercato di Manaus, in Amazzonia: l’artista si imbatte in una bancarella di frutti con dimensioni simili ma profumo, sensazione al tatto, consistenza e sapori diversi. Il venditore le dice che sono tutti albicocche. In realtà ognuno aveva il proprio nome indigeno che nemmeno lui conosceva, andato perso, come nelle Americhe è accaduto ai nomi di villaggi, fiumi e monti, per effetto della colonizzazione. Che il titolo della serie sia in inglese, non è certo un caso.
Dal buio di una delle sale riservate alle proiezioni si viene trasportati, con inquadrature fatte di riflessi e scorci, in una villa lussuosa nella foresta, dove la giovane e bianca padrona di casa fa un bagno in piscina e si prepara per una festa, scivolando come un fantasma tra la servitù di colore. La villa si riempie di ospiti altolocati e letterati; tra un cocktail e un ballo, i dialoghi toccano vari aspetti della recente storia brasiliana e rendono con sagace ironia il distacco dell’intellighenzia locale dai veri problemi del paese. La ragazza entra in un bagno a ritoccarsi il trucco, esce, prende un bicchiere di champagne dal vassoio che le porge un cameriere e tutto ricomincia in un movimento circolare che sembra non offrire scampo. È il cortometraggio Canoas (2010) di Tamar Guimarães, l’opera visivamente più raffinata e convincente della mostra.
Raffinata in modo più popolare, o pop, è anche la serie Educação para Adultos (Educazione per adulti, 2010) del giovane Jonathas de Andrade, che parte da venti poster pedagogici degli anni Settanta, fondati su un metodo di apprendimento per associazione tra una parola e un’immagine, e a questi ne mescola altri creati da lui, mantenendo la stessa estetica: il risultato è spiazzante e solo a poco a poco si comincia a distinguere gli uni dagli altri. A tratti si sorride, ma nel processo lo sguardo si acuisce e si focalizza.
I lavori di sicuro interesse sono più di quanti ne possa citare – tra questi il video Capitano della foresta di Regina Parra – ma non ne mancano altri più deboli che, opuscolo o non opuscolo, rimangono essenzialmente muti. Non è però un problema specifico di questa mostra, bensì riguarda l’arte contemporanea in generale, che con la sua enfasi sul concetto e sull’intenzione, piuttosto che sull’esecuzione artistica, corre costantemente il rischio di non riuscire a veicolare né l’uno né l’altra. Col risultato che qualsiasi significato venga attribuito alle opere risulta quasi irritante tanto appare forzato, se non addirittura posticcio.
L’iniziativa del PAC di esplorare la produzione artistica contemporanea internazionale, dedicandosi ogni anno a una diversa realtà territoriale, è davvero pregevole, benché al giorno d’oggi non sia per nulla facile restituire l’immagine di un paese attraverso la sua arte: sotto il profilo estetico, diverse opere esposte potrebbero essere state prodotte ovunque. È l’effetto di quella nuova forma di colonizzazione, a volte auto-inflitta, che si chiama globalizzazione.