L’inconfondibile fantasia di Tiziana Arnaboldi e la trascinante empatia di Riccardo Blumer costituiscono il tandem che ha inaugurato recentemente la stagione del Teatro San Materno di Ascona. Il solco tracciato dalla direzione sul palcoscenico della storica sala costruita per Charlotte Bara ha iniziato da oltre un paio di anni ad alimentare un costante interesse attorno al progetto di mettere in relazione la danza contemporanea con altre discipline artistiche.
Il tema questa volta scelto da Arnaboldi per aprire il cartellone ruotava intorno a La sedia come metafora dell’uomo. Potrà apparire bizzarro ma in realtà attorno a questo oggetto, ormai ritenuto indispensabile dalla cultura occidentale, è possibile creare molteplici ragionamenti e dimostrare altrettante evidenze spesso ignorate. La danza ad esempio può svilupparsi sul concetto di sedia come «protesi», il prolungamento del corpo attorno a un punto fisso dove si concentrano tutte le forze da declinarsi in un’andata e ritorno che sfida la gravità; imparando così ad abbandonare il corpo al disequilibrio e a scoprirne la bellezza.
Sulle note del Bolero di Ravel, la coreografa asconese ha così creato per i suoi danzatori un ricamo intenso e gioioso, una corsa in cui l’ipnotico motivo agisce su movimenti che solo a tratti lasciano intravedere il leggendario affresco di Béjart, cedendo subito il passo a nuove invenzioni compositive per il collettivo. Una sala piena ha accolto con attenzione, divertimento e ammirazione lo spettacolo offerto dai danzatori, gli ottimi Francesca Ugolini, Francesco Colaleo, Maxime Freixas e Faustino Blanchut.
Alla danza ha fatto eco l’appassionante performance di Riccardo Blumer. Architetto e designer (una sua sedia è esposta al MoMA di New York), Blumer dirige l’Accademia di Architettura di Mendrisio dove è anche ricercatore dei processi cognitivi e creativi. Una «specialità» didattica sulla quale non ha lasciato dubbi, offrendo esempi sorprendenti per la loro disarmante semplicità che dimostrano come la materia presente in natura offra soluzioni ai problemi più complessi. Ecco così lo scienziato invadere il palco con sei valigie da cui estrarre decine di marchingegni utili al ragionamento: sugli occhi delle mosche, delle allodole, delle galline e dei granchi, sui colori ma anche sul peso dell’aria e sulla robustezza di un guscio d’uovo che, nonostante la sua vuota fragilità, prima di rompersi riesce a sopportare una pressione fino a 40 chili. La serie di insolite concatenazioni sperimentali, spiegate come una favola per bambini, dimostra l’inutilità dell’arte quando non è controbilanciata dalla sete di conoscenza – entrambe le discipline vano coltivate. Un momento di divertente e appassionante genialità.
Il prossimo appuntamento al San Materno sarà il 22 ottobre (alle 17.00) con Carne/Densità: danza e soffio con Michel Raji e Pierre Blanchut.
La malattia del Principe
Un momento di alta scrittura teatrale contemporanea per un’intensa interpretazione. È il nostro ultimo appunto sul Festival Internazionale del Teatro appena concluso, durante il quale il palco del LAC si è nuovamente trasformato in spazio scenico per ospitare Hamlet del regista basilese Boris Nikitin. Uno spettacolo che non lascia indifferenti. Forse è meglio parlare di una trance recitativa sull’identità di Julian Meding, musicista e performer, protagonista di un monologo giocato sulla falsariga di un Amleto dei nostri tempi, drag queen di un queer cabaret androgino. Il Principe di Danimarca non appare mai, non pretende di essere, ma manifesta il suo non essere come sublimazione di una follia malata nella visione del mondo come sorta di delirio autobiografico. Il tutto accompagnato da un quartetto musicale barocco.
Una provocazione intelligente e sottile, perfetta per i codici registici di Nikitin con un teatro che vive nella rappresentazione del corpo fragile e nella presenza magnetica di Meding, antieroe per una sera.