Si sa che, quando un artista del calibro e del prestigio di Bob Dylan si ritrova infine sulla soglia degli 80 anni, le sue folte schiere di seguaci sono ben consapevoli di come il loro idolo possa ormai permettersi svariati lussi – tra cui quello di sfornare brani inediti quasi con il contagocce; eppure, sebbene la prolificità del vecchio Bob sia andata via via scemando negli ultimi anni, è comunque innegabile che, quando quest’artista meraviglioso decide di far sentire la propria voce, ciò provochi sempre un piccolo sisma. Soprattutto se, nel pieno di una pandemia mondiale che ha sconvolto le abitudini di ogni abitante del pianeta, il «Bardo di Duluth» decide d’un tratto di tornare alla ribalta con un brano quantomeno particolare: una lunga ballata (della durata di oltre 16 minuti!) incentrata sulla morte di John Fitzgerald Kennedy, in un vero e proprio «flashback» che sembrerebbe avere scarsi legami con la difficile realtà attuale.
Del resto, la figura di Dylan è andata soggetta a una distinta e piuttosto curiosa dicotomia: dopo i fasti dell’impegno sociale degli anni 60 e 70, con la seconda parte della sua carriera (e l’inizio del Never Ending Tour, che dal 1988 lo vede viaggiare instancabilmente da un capo all’altro del mondo), Bob è parso volersi staccare dal suo ruolo di portavoce di una generazione «arrabbiata» per convertirsi invece a uno sguardo ben più intimista, e, in fondo, quasi indifferente nei riguardi della realtà sociopolitica contemporanea. Solo apparentemente, in verità, perché, come una grande scrittrice ebbe un tempo ad affermare (ben prima che a Dylan venisse assegnato il Nobel per la letteratura), «il suo silenzio fa più rumore di mille slogan».
In effetti, oggi, con questo nuovo Murder Most Foul, Dylan torna a mostrare grandissima lucidità artistica, combinando lo sguardo crudo e clinico da storyteller consumato alla magistrale poetica di cui sa infondere ogni suo verso. Ecco quindi che il 23 novembre 1963 vede Kennedy «condotto al macello come un agnello sacrificale», mentre gli oscuri personaggi dietro al complotto gli si rivolgono con frasi di scherno («hai debiti in sospeso, e noi siamo venuti a riscuotere»); senza peraltro disdegnare un accenno alle ambigue connessioni vantate dal Vicepresidente Lyndon Johnson («abbiamo qualcuno già pronto a prendere il tuo posto»).
Lungi dal limitarsi a una perfetta padronanza del racconto di stampo cinematografico, la grandezza di Dylan si estende così alla consueta maestria nell’impiegare una sorta di «flusso di coscienza» narrativo – dipingendo una successione di immagini dalla forza e potere di suggestione assoluti, senza mai concedere un attimo di tregua all’ascoltatore. Difatti, seguendo i dettami della tradizione folk a cui si è sempre rifatto, Bob intesse qui una trama di continue associazioni mentali, indotte da un uso sapiente e conciso del verso e del ritmo poetici e condite da continui rimandi e citazioni «pop» – il tutto volto a calare il pubblico in una dimensione quasi onirica, in cui, bombardato da sensazioni contrastanti, finisca per ritrovarsi immerso in quel tempo, luogo e atmosfere.
Certo, negli anni d’oro il Maestro ci aveva già stupiti con epopee narrative di altissimo livello – su tutte, l’eccellente Hurricane (1975), potente cavalcata rock che raccontava del calvario giudiziario del pugile afroamericano Rubin Carter; e in anni più recenti, la title track dell’album Tempest (2012) lo aveva visto cimentarsi in un affresco corale quanto surreale sull’affondamento del Titanic.
Per molti versi, Murder Most Foul è accomunato a simili predecessori sia dalla struttura narrativa che dalla musica quasi elegiaca, sempre volutamente al servizio del testo; in questo caso, però, l’argomento trattato (la morte prematura di chi aveva rappresentato la «nuova frontiera» dell’America, destinata a rimanere irrealizzata) è ancor più caro al cuore di Bob – il quale, del resto, è considerato, al pari di Kennedy, come un vero e proprio simbolo della nazione a stelle e striscie.
Oltre a dipingere la perdita dell’innocenza di un intero Paese («l’era dell’Anticristo è appena cominciata»), Dylan tratteggia quindi un autentico dramma shakespeariano di rilevanza universale – quasi l’omicidio di JFK divenisse un simbolo della definitiva morte del sogno non solo americano, ma anche occidentale; una morte qui rievocata in modo raggelante, a tracciare un oscuro parallelo tra il crimine di mezzo secolo fa e la fine di ogni libertà civile a cui, anche nel presente, il nostro mondo sembra ormai condannato ad assistere.
Così, con Murder Most Foul Bob Dylan si conferma una volta di più come uno dei più grandi storyteller che la storia della musica popolare abbia mai conosciuto – non soltanto in termini di tradizione folk angloamericana, ma anche letteraria: riuscendo a fare di un evento in apparenza datato (e, forse, ormai piuttosto inflazionato) una metafora impietosa, quanto commovente ed evocativa, del crollo di tutti i nostri sogni e speranze.