Billie Holiday, Lady Day

Un piccolo omaggio alla Signora del Jazz con le gardenie bianche tra i capelli, a 60 anni dalla morte
/ 15.07.2019
di Enza Di Santo

La sua influenza nel panorama musicale, il suo jazz, il suo blues, non hanno paragoni, perché Billie Holiday non cantava mai due volte un brano allo stesso modo, perché considerava la sua voce alla stregua di uno strumento a fiato, perché ogni singola parola, era attraversata da un incredibile senso del ritmo e dalla forza del sentimento. Era capace di trascendere il testo e caricarlo di un pathos quasi logorante, esprimendo tutto l’amore che aveva per la musica. L’ascolto delle sue canzoni è ancora un’esperienza unica, un concentrato orchestrale di assoluta bellezza e profondissima melanconia, una sorta di dolce abisso dal quale si fatica a riemergere. I brani The man I love (1935) e Summertime (1936) composti da George Gershwin, rappresentano a pieno quel modo di Billie di scivolare sulla musica con un attacco leggermente in ritardo, il suo swing.

Il palco ha dato tanto a questa donna afroamericana, nata nel 1915, abilissima nell’improvvisazione, che con molta fatica è riuscita a farsi strada nell’ambiente prettamente maschile del jazz degli anni 30 e 40 del ’900. Lady Day, soprannome datole dal suo grande amico, anima affine e sassofonista Lester Young, si afferma durante un periodo storico durissimo; la depressione economica aveva colpito gli Stati Uniti nel 1929, le persecuzioni razziali e il proibizionismo creavano un clima teso e certamente svantaggioso per una donna che cercava la sua strada, con un trascorso che definire complicato è un assoluto eufemismo. Eppure nonostante un’infanzia terribile, la prostituzione giovanile, gli stupri, il carcere, le relazioni sentimentali sbagliate, l’alcol e la droga, Billie è sempre tornata a cantare sino al giorno della sua morte, il 17 luglio del 1959.

La storia di Billie è raccontata attraverso il suo album più celebre, Lady Sings the Blues, del 1956, anno in cui esce anche la sua autobiografia, omonima. Nel 1972 le è stato dedicato un film, non sempre coerente con la realtà, che lascia un po’ di amarezza perché Billie, interpretata da Diana Ross, viene dipinta come vittima di se stessa, del suo passato e del suo successo, così l’intento di risollevarne la reputazione distrutta mentre era in vita, fallisce in una scontata ipocrisia.

Ma Billie era forte e carismatica. Nel 1933 venne notata dal produttore John Hammond e, appena diciottenne, diventò la stella di tutti gli speakeasy della Swing Street di Manhattan, dove cantava Riffin’ the Scotch con Benny Goodman. Ebbe modo di incidere con il pianista Teddy Wilson, poi entrò nella band di Count Basie collezionando gelosamente a memoria un centinaio di brani. In seguito si unì all’orchestra di Artie Shaw, composta da musicisti bianchi. Dopo viaggi sfiancanti attraverso gli Stati Uniti, il poeta ebreo Abel Meeropol le propose di cantare il suo Strange Fruits (Grammy Hall of Fame Award nel 1978), un cruento brano di denuncia contro il linciaggio dei neri nel sud del Paese. 

Dopo molti dubbi iniziali, lo presentò nel 1939 al Cafè Society, uno dei primi nightclub misti dell’epoca. Lo scalpore fu immediato, le radio e le case discografiche lo rifiutavano, inoltre occorreva un permesso per poterlo eseguire nei locali. Senza accorgersene, Billie diventò un’artista molto discussa e un bersaglio politico. Si dimostrava dura, ma si sentiva minacciata, sfruttata e sola. Aveva sempre un cane a farle compagnia, la faceva sentire sicura e poteva rivelarsi un buon nascondiglio per l’eroina.

Nel 1941 Billie portò al successo la versione di Sam Lewis di Gloomy Sunday e uscì God Bless the Child (Grammy Hall of Fame Award 1976), un meraviglioso incontro tra gospel, bop e rural blues. Tra il 1942 e il 1944, non incise nulla, la sua evidente dipendenza veniva nascosta da lunghi guanti e Billie, considerata problematica, era controllata dalla narcotici. Nel documentario del 2015, A Sensation di Katja Duregger, si racconta di come anche l’FBI fosse molto attenta alle sue mosse e cercasse addirittura di boicottarne la carriera.

Nel 1945 uscì Lover Man, premiata con il Grammy Hall of Fame Award nel 1989, poi dal 1946 al 1959 pubblicò una valanga di album tra cui Lady Day (1954) e Lady Satin (1958), partecipò allo sfortunato film del 1947 New Orleans con Louis Armstrong, partì per il tour europeo e soprattutto, si esibì alla Carnegie Hall, dove nel 1956 cantò l’incredibile Don’t Explain.

In vita non fu consacrata dai riconoscimenti, ma fu molto amata, che forse è ciò che più conta, e si guadagnò l’affetto del pubblico e il rispetto di tutti i migliori musicisti jazz bianchi e neri di quei tempi.