Sabine Gisiger ha presentato il suo Willkommen in der Schweiz

Fanny Ardant è la protagonista di Journal de ma tête della svizzera Ursula Meier (RTS) 


Berlino, politicamente corretta

Quest’anno più che mai si è tenuto conto di minoranze e di messaggi politici; di tutto rispetto e di alta qualità la presenza svizzera alla kermesse
/ 26.02.2018
di Nicola Falcinella

Un 68° Festival del cinema di Berlino come sempre fin troppo affollato di titoli tra le diverse sezioni, con la consueta attenzione ai temi sociali, ai Paesi poco frequentati cinematograficamente, agli esordienti e alle registe donne, tanto che la selezione appare un po’ fatta con il bilancino del politicamente corretto.

Impegnato, lucido e insieme e toccante, è il documentario Eldorado dello svizzero Markus Imhoof, presentato fuori concorso nella collocazione prestigiosa della selezione ufficiale. L’Eldorado del titolo è ciò che sognano i migranti che scappano dai luoghi d’origine e sbarcano sulle coste dell’Italia meridionale con l’obiettivo di raggiungere l’Europa del nord. Il regista elvetico segue il viaggio dai salvataggi in mare con le navi italiane, poi i centri d’accoglienza, il lavoro clandestino fino ad arrivare in Svizzera, collegandosi in questo a Benvenuti in Svizzera di Sabine Gisiger, di prossima uscita nelle sale ticinesi dopo il passaggio a Locarno Festival. Per Imhoof è un ritorno al suo capolavoro La barca è piena (1981), a riflettere sull’accoglienza e i suoi limiti, in una situazione diversa da quella della Seconda guerra mondiale, ma con parecchie analogie, in primis i bisogni basilari di tanti esseri umani in fuga. Il regista parte dall’esperienza familiare: in piena guerra, mentre il padre era militare «sul confine», sua madre accolse in casa una bambina milanese rifugiata, Giovanna, poco più grande di lui.

Il rapporto continuò in maniera epistolare (e nel film in forma di dialogo a distanza) dopo il ritorno a casa della ragazza e fino alla sua morte prematura. Con un parallelo mai schematico e con grande sensibilità e forza, Imhoof filma chi oggi fugge dalla Siria, dalla Somalia, dalla Costa d’Avorio e da altri Stati, mostra il lavoro dei marinai, dei soccorritori e dei medici, denuncia la chiusura dell’Europa e l’ottusa burocrazia che rende molti immigrati schiavi a disposizione di imprenditori agricoli senza scrupoli che li sfruttano nei campi. Il regista racconta storie di persone e i meccanismi criminali di un’economia che sembra fondarsi sulle ingiustizie. La barca non è piena, alla barca servono marinai, dice il cineasta.

La Svizzera ha anche proposto ben tre opere nella sezione Panorama. Nicolas Wagnières ha sviluppato nel documentario Hotel Jugoslavija un cortometraggio del 2007. Di madre belgradese emigrata negli anni 60, il regista ha filmato l’enorme albergo di Belgrado dal 2005 per una decina d’anni e ora lo utilizza come simbolo delle traversie di un Paese che non c’è più, passato dalle ambizioni di Tito alle incertezze attuali attraverso guerre fratricide. Anche Wagnières utilizza memorie personali, delle vacanze da bambino al mare e a Belgrado, per allargarsi a una riflessione generale.

Belli i due film della serie per la televisione Ondes de choc, composta da quattro parti affidate ad altrettanti registi diversi a partire da fatti realmente accaduti. Ursula Meier si conferma, dopo Home e Sister, autrice di alto profilo internazionale con Journal de ma tête. Il 27 febbraio 2009, in Vallese, il diciottenne Benjamin (Kacey Mottet-Klein) uccise i genitori con la pistola del padre dopo aver inviato una busta con il suo diario degli ultimi giorni a Esther (un’intensa Fanny Ardant), la professoressa di francese che invitava gli studenti a scrivere i loro pensieri. L’insegnante va in carcere a trovare il ragazzo, che sarà condannato a sette anni, stabilendo con lui un rapporto che ella stessa definisce assurdo. Quanto va preso sul serio ciò che scrive un ragazzo in un diario? Cos’è soltanto espressione di ribellione e cos’è sintomo di disagio profondo o la manifestazione di un’intenzione? Il film riflette sulle motivazioni e le conseguenze del gesto, la responsabilità dell’insegnante, il rapporto tra vita e letteratura.

In Prénom: Mathieu, Lionel Baier va all’estate 1986 per raccontare del diciassettenne Mathieu. Una notte facendo autostop fu aggredito da uno sconosciuto e sopravvisse allo stupro e alle violenze da parte di uno che aveva già ucciso cinque ragazzi in diverse zone della Svizzera (uno di Orselina). Tra poliziesco e thriller psicologico, il ritorno alla normalità del ragazzo, che cerca di ricordare l’aspetto del colpevole per aiutare le indagini. C’è una buona ricostruzione dell’epoca, con i mondiali di calcio e le proteste per la costruzione dell’autostrada da Berna a Losanna. Il regista aggiunge un tocco di visione che è molto nel suo stile. I restanti episodi, già presentati alle Giornate di Soletta, sono La Vallée di Jean-Stéphane Bron e Sirius di Frédéric Mermoud.