Georges Feydeau, ovvero il più celebre e geniale autore di vaudeville; il costruttore di meccanismi drammatici straordinariamente complicati e precisi; il creatore di personaggi che non sono né realistiche figure «a tutto tondo» né «maschere» di una moderna Commedia dell’Arte: uomini e donne della media borghesia francese e del demi-monde parigino di fine Ottocento e primo Novecento (la cosiddetta belle époque) di cui ci vengono prontamente forniti alcuni dati anagrafici e alcune informazioni concernenti il loro status: individui fortemente condizionati dalle convenzioni del milieu di appartenenza, fatti zimbello dell’imprevedibilità del caso (un «fato comico», secondo Paul Morand e Giovanni Macchia), e irresistibilmente travolti da un succedersi di equivoci e coincidenze che li costringono a modificare senza tregua il castello di menzogne edificato per nascondere o mascherare le loro pulsioni e finalità (che sono di natura prevalentemente sessuale), mettendo così a nudo (ma in Feydeau non c’è alcun intendimento censorio, educativo, didascalico) tutta la loro vuotaggine e il loro perbenismo ipocrita.
Più o meno ricco di qui pro quo, scambi di persona o di luogo, iterazioni, agnizioni, colpi di scena, l’intreccio dei vaudeville prende quasi sempre l’avvio da situazioni adulterine. È ciò che avviene in Sarto per signora, dove il dottor Moulineaux, marito di Yvonne, affitta l’ex laboratorio di una sarta per potersi incontrare con Madame Aubin, dando in tal modo origine a una serie di equivoci e incontri indesiderati. Scritto nel 1886, quando Feydeau aveva solo ventiquattro anni, è il primo dei suoi lavori in tre atti, e pur essendo un’opera di apprendistato, ancora distante dalla perfezione dei grandi vaudeville della maturità (L’albergo del libero scambio, La dama di Chez Maxim’s, La palla al piede, La pulce nell’orecchio, il cui intreccio è di geometrica, vertiginosa complicazione), è nondimeno molto divertente.
Inscenare un vaudeville di Feydeau non è impresa da poco: si tratta di raggiungere un difficile equilibrio fra concretezza e astrazione, fra verosimiglianza e improbabilità, fra naturalezza e artificio, evitando i cali di tensione, il facile macchiettismo, la grevità farsesca, la frivolezza manieristica. Ci vogliono insomma un sensibile e minuzioso regista-concertatore e un’eccellente compagine di attori. Il migliore, nello spettacolo firmato da Valerio Binasco, mi è sembrato Fabrizio Contri, nel ruolo di Bassinet, il marito di Rosa, alias Madame de Saint-Anigreuse (la brillante Viviana Altieri).
Contri ha saputo trovare la giusta misura, puntando a un realismo, se così posso dire, leggermente sopra le righe, a una verosimiglianza un poco artificiosa. Bene, anche se con sporadiche forzature, Anita Bartolucci nella parte di Madame Aigreville, madre di Yvonne (Elisabetta Mandalari); Lisa Galantini (Suzanne, moglie di Aubin, interpretato da Simone Luglio); Barbara Bedrina, nel doppio ruolo di Pomponette e Madame D’Herblay. Esageratamente macchiettistico il domestico Etienne (Cristiano Dessì), sia prima sia dopo aver indossato – credendola un regalo – la sgargiante vestaglia di Moulineaux, interpretato da Emilio Solfrizzi. Di sicura presenza scenica, Solfrizzi eccede talvolta in coloriture e sottolineature facciali, vocali e gestuali, specie nel primo atto.
All’inizio, i vaudeville di Feydeau hanno l’andamento di una vivace commedia borghese. Poi le situazioni si complicano, fino ad assumere – nel secondo atto – un ritmo sempre più incalzante: a teatro, la velocità del meccanismo drammatico dovrebbe apparire tale da far temere lo sconquasso. Nel terzo atto, infine, l’agitazione burattinesca si converte nel ritmo adatto a una vicenda che volge a una conclusione normalizzatrice. Nello spettacolo di Binasco il primo atto è in sovrattono e con qualche gag di troppo. Ma il secondo funziona.
In una nota di regia Binasco scrive che Feydeau è «uno dei più grandi autori del mondo». L’affermazione è iperbolica, ma sono d’accordo con lui nel considerare il celebre vaudevilliste uno dei pochi autori teatrali «puri», vale a dire: «che non fanno letteratura». Penso inoltre che è forse il solo commediografo importante al quale si confanno pienamente queste parole di Bergson: «Il comico si rivolge alla pura intelligenza; il riso è incompatibile con l’emozione», e anche: «L’indifferenza è il suo milieu naturale».
Sono grato a Valerio Binasco di aver riproposto la pièce giovanile di un drammaturgo che i registi italiani da parecchio tempo trascurano, e che è smisuratamente superiore a quegli autori di testi o di spettacoli seriosi e/o doloristi che a me sembrano mediocri, e che certa critica elogia con qualificativi enfatici: devastante, struggente, lancinante, squassante, sconvolgente, lacerante.