«Alla Sorbona, il commissario Bayard chiede dove si trova il dipartimento di semiologia. La persona dell’accoglienza gli risponde con l’aria altezzosa che non c’è. La maggior parte degli studenti non sa cosa sia o ne ha sentito parlare solo molto vagamente».
Voilà. Dovendo scrivere un romanzo sulla morte, già di per sé non aliena all’artificio narrativo, di Roland Barthes (uno tra i tre-quattro maggiori pensatori nel Novecento nell’ambito della comunicazione umana), probabilmente le opzioni non sarebbero infinite e si finirebbe per scriverlo come questo La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet, libro fortunatissimo che arriva ora in edizione italiana forse non a caso per «la nave di Teseo», casa editrice che accolse qualche anno fa Umberto Eco e tutta una serie di reduci ribelli della Bompiani. Prendete un fatto vero, la morte di Barthes (o, come direbbero i francesi con vezzo stucchevole, RB) e ipotizzate un contesto non casuale che abbia a che fare con i suoi lavori e il milieu accademico dell’epoca; il fatto vero è la morte nel febbraio del 1980 dopo essere stato urtato da un furgone all’uscita da un pranzo con François Mitterand; la mistificazione narrativa e manipolatoria riguarda il vero motivo dell’incidente, rinviato qui a un possibile omicidio.
La posta in palio non può che essere di natura scientifica. A un modello della comunicazione tuttora insuperato (lo conoscono i linguisti fin dal primo proseminario) elaborato dal linguista strutturalista Roman Jakobson e che comprende sei ormai mitiche funzioni della comunicazione umana, Barthes ne avrebbe aggiunta in quei giorni una, utilissima ai politici e ai padroni del mondo. Ed è appunto per impossessarsi di questa arma letale che «qualcuno» avrebbe in questo libro deciso di ucciderlo. Il commissario Jacques Bayard è spiccio e astuto ma ha bisogno, vista la materia, dell’aiuto di un giovane semiologo, Simon Herzog, che conosce il mondo della disciplina ma anche la disciplina stessa, il che aiuterà l’inusuale coppia a procedere nella delicata indagine. Ora, se uno conosce un po’ quegli studi e quell’epoca (straordinaria per quegli studi), coglierà forse i riferimenti scientifici (e potrà magari anche essere infastidito dall’uso che se ne fa); se uno non lo conosce ha però anche altri contorni in fin della fiera non male: l’ambiente delle università parigine degli anni Ottanta, l’ambiente di quegli anni in generale, gli intellettuali ancora parigini, Foucault, Deleuze, il giovane Bérnard-Henri Lévy (BHL, il vezzo è quello di prima), i loro cafés, le automobili del tempo, il calcio del tempo e così via.
La morte di Roland Barthes, quella vera, la versione ufficiale per dirla con i protagonisti del libro di Laurent Binet sta in una famosa biografia del linguista Louis-Jean Calvet, dove il lettore riconoscerà passione nelle ampie pagine sulla famiglia Barthes, sulla madre e la sua morte, su tratti del carattere di RB. Fino ai giorni, appunto, della morte: al cospetto dell’amico morto il collega Algirdas Greimas dirà tra l’altro: «le petit Roland, tout petit, come ratatiné», come raggrinzito.
Ecco, si può leggere la non meno avvincente cronaca biografica di Calvet, magari qualche pagina wiki sulle teorie semiotiche più diffuse, le tenere e struggenti pagine del diario del Maestro scritto nei giorni della perdita della madre e alla fine il romanzo di Binet. Se l’operazione non è troppo onerosa sarà certamente profittevole e gratificante. L’epilogo non si svela: questo è prima di tutto un romanzo poliziesco.
Bibliografia
Laurent Binet, La settima funzione del linguaggio, Milano, la nave di Teseo, 2018.