Banco 2.0, quando la musica è vera

A colloquio con Vittorio Nocenzi, da quarant’anni la mente di una delle band storiche del pop italiano
/ 03.02.2020
di Alessandro Zanoli

Il Banco del Mutuo Soccorso al Teatro di Chiasso. Un’occasione irripetibile per incontrare Vittorio Nocenzi (a dest. nella foto), personalità tra le più importanti nella storia della musica italiana. All’altezza (senza esagerazione alcuna) di Battiato, Battisti, Fossati, solo per rimanere nel novero dei compositori. Detto questo, occorre essere realisti. I dischi più belli del Banco sono quelli degli anni 70. Poi l’epoca del «disimpegno», la rincorsa della melodia accattivante che trovasse ascolto nelle radio commerciali ha sicuramente diluito il carattere della band. Brani come Paolo Pa, Moby Dick, Grande Joe, per quanto ben curati e conosciuti, non rispecchiano completamente la caratura del gruppo. Che può essere ritrovata in pieno, invece, in uno dei più bei dischi del pop italiano, Banco... Di Terra del 1978.

Mentre riflettiamo su tutte queste cose, arriviamo all’albergo chiassese in cui Nocenzi e compagni sono ospitati. I nuovi membri del gruppo sono tutti lì, con il Maestro. Vittorio, dall’alto della sua storia, con i suoi quasi 70 anni e con una barbetta bianca patriarcale, incute una certa soggezione. Di persona, invece, si dimostra assolutamente gioviale e affabile: l’intervista si trasforma in una chiacchiera informale, piacevole, entusiasmante persino, con tutta la band.

Chi scrive chiede conferma a Nocenzi sul fatto che il termine «prog», etichetta che oggi classifica la musica del Banco, non esistesse negli anni in cui quella musica era in voga. Nocenzi è d’accordo: «Si chiamava pop-rock. I critici amano mettere etichette perché semplifica loro il compito». E qui Nocenzi si toglie un primo sassolino dalla scarpa. «Tutti i musicisti italiani soprattutto di rock-prog hanno subito delle angherie insopportabili dalla cosiddetta critica musicale italiana. All’epoca erano profondamente ignoranti, nel senso etimologico: ignoravano la musica, e consideravano il rock soltanto un’espressione di costume sociale. Non l’hanno mai considerato una forma d’arte o una forma di produzione culturale, un momento di creatività come la letteratura». Non ci viene in mente di fargli notare che lo stesso forse è accaduto alla critica cinematografica. Ma tant’è: come cronisti siamo stati messi in guardia. (Va notato che qualcuno dei suoi musicisti non è stato così critico verso l’etichetta «Prog»: avrebbe il vantaggio, in fondo, di definire un genere in costante evoluzione, e questo non è male).

Con Vittorio Nocenzi, evidentemente abbiamo voglia di parlare di Transiberiana, il recente disco di inediti che segna il ritorno del Banco sulle scene. Nocenzi ci spiega: «Se tu ascolti la Legacy edition del 2017 di Io sono nato libero, il nostro terzo album, nei trenta minuti di registrazioni inedite con la nuova band, ci trovi tutta Transiberiana: la scelta dei tempi, l’orchestrazione, certi suoni, l’approccio ritmico, la ripartizione condivisa di tutti gli elementi che ci caratterizzano».

In effetti, negli scorsi anni Nocenzi ha curato per la Sony tre riedizioni, migliorate tecnologicamente e ampliate, dei primi tre dischi del banco. Il gruppo che suona oggi con lui (composto da Filippo Marcheggiani e Nicola di Già alle chitarre, Marco Capozi al basso, Fabio Moresco alla batteria e Tony D’Alessio al canto) si è riunito la prima volta nel 2017 per la riedizione del terzo album, forse il più complesso musicalmente e per contenuti tra i dischi «storici». «Lì è stata una nuova scommessa che miracolosamente abbiamo vinto... Ma se tu mi chiedi come, non so dirlo: posso soltanto raccontarti le fasi del lavoro. È stato un miracolo. Perché contemporaneamente dovevamo dare certezza di contenuti, e quindi una identità che fosse all’altezza di quella del vecchio Banco, ma parallelamente dovevamo rinnovare quell’identità».

Dall’ascolto, di Transiberiana, oggi, pare di trovare un Banco un po’ più rock. «E questa impostazione rock cosa esprime?» incalza Nocenzi. Tocca a noi rispondere: rabbia? incazzatura? «Ma tu come staresti dopo che hai perso due compagni con cui hai vissuto una vita? È stata una reazione rabbiosa». Il musicista allude alla tragica scomparsa nel giro di pochi anni di due elementi fondanti del gruppo, il cantante Francesco Di Giacomo e il chitarrista Rodolfo Maltese. «Avevo bisogno forsennatamente del suono più rock e più duro che sta dietro a Transiberiana. Non potevo fare la pastorale dell’Arcadia. Era successo uno tsunami devastante. La musica dev’essere vera. Poi se riesci a scriverla bella o brutta questo è un altro dato. Ma tu devi porti il problema di scrivere una cosa vera. Soprattutto per una storia come questa. Una storia vera, fatta di persone, di poesia, di arte, di creatività. E la devi rispettare mettendoti dei paletti seri. Io ho rotto le scatole ai ragazzi della band per tutto il tempo che sono stato in studio, cinque mesi di lavoro intensissimo. Dicevo “Ragazzi deve essere un disco vero... ragazzi deve essere un disco vero”. Un disco vero, autentico, non si deve “annusare” nessun calcolo di produzione discografica... Non dobbiamo fare il verso alla storia del Banco, a noi stessi. Dobbiamo essere il nuovo Banco!».

Lui lo chiama Banco 2.0. Ed è una formazione speciale: uscito da tempo dalle file del gruppo il fratello di Nocenzi, Gianni, è ora entrato a collaborare il figlio di Vittorio. «Un’altra cosa che mi è tornata indietro, da parte del destino, è scoprire in mio figlio più piccolo Michelangelo, il terzo, un gran talento musicale. Ovviamente è qualcosa che fa parte del DNA. Lui è arrivato e mi ha fatto sentire delle cose. E ogni volta mi scattava sempre la stessa sensazione. Mi sembrava di averla scritta io, di persona. Questa cosa mi divertiva, mi sorprendeva e mi entusiasmava. Per cui istintivamente mi sono trovato a scrivere tutta Transiberiana con Michelangelo a quattro mani. Un piacere in più poi è stato quando la band si è appropriata del nuovo repertorio e l’ha fatto suo».

Ma lei, Nocenzi, era sicuro, che il gruppo sarebbe riuscito a soddisfare le sue aspettative? «Certo che no. Infatti mi sono sentito tanto un sarto che disegna il modellino del vestito, sceglie le stoffe, le taglia, le cuce, ma finché la persona per cui è pensato quel vestito non lo indossa, non sai se hai fatto un errore. E io aspettavo il momento in cui la band dovesse indossarlo. Alle chitarre di Filippo e di Nico. Alla voce di Tony. Alla batteria di Fabio, al basso di Marco. Alla fine ho avuto la prova del nove. Avevo azzeccato modello e stoffa. E loro ci hanno messo il carico da dodici sopra. Perché l’interpretazione vocale, le parti del basso e della batteria, le chitarre erano quelle giuste: vedi che ti è arrivata questa rabbia, questa energia?».