Dove e quando
Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ’68. A cura di Pier Giovanni Castagnoli. Galleria civica d’arte moderna e contemporanea. Torino. Fino al 24 giugno. Catalogo Sivana editoriale, in preparazione www.gamtorino.it

Renato Guttuso, Gli addii di Francoforte (1968) (collezione privata)

Renato Guttuso, Funerali di Togliatti (1972) (deposito permanente dell’Associazione Enrico Berlinguer; foto: Matteo Monti, courtesy Istituzione Bologna Musei | MAMbo)


Arte e rivoluzione

Renato Guttuso alla Galleria d’arte moderna di Torino
/ 19.03.2018
di Gianluigi Bellei

Il tempo è un galantuomo, si diceva citando Voltaire. Non è sempre vero. Sembra che lo sia per Renato Guttuso, nome che forse oggi dirà poco o niente, soprattutto ai giovani, ma che fino ad alcuni decenni fa era considerato un artista potente e rinomato. Amico di Pablo Picasso e di Roberto Longhi, di Pier Paolo Pasolini, di Alberto Moravia; frequentava Giulio Andreotti e il Cardinal Angelini. Ai suoi funerali nel 1987 salirono sul palco Alberto Moravia, Alessandro Natta e Carlo Bo. Cofondatore nel 1947 del Fronte nuovo delle arti, ottiene il premio per la pace nel 1950 e il Premio Lenin nel 1972 a Mosca, riconoscimento già assegnato a Pablo Neruda, Rafael Alberti, Pablo Picasso. Membro del Comitato centrale del Partito comunista italiano, senatore della Repubblica, editorialista dell’«Unità», del «Corriere della Sera», de «la Repubblica».

Mostre al Museo Puškin di Mosca e al Museo Stedeljk di Amsterdam… Ma se cercate il suo nome nelle varie storie dell’arte e nei libri correlati non lo troverete. Per due semplicissime ragioni: era un pittore e per giunta figurativo, ma soprattutto non ha rispettato le regole del mercato. Sì, perché non gli interessavano né le gallerie d’arte, né i mercanti, né i musei. Vendeva i suoi quadri direttamente, senza intermediari, con prezzi che variavano secondo l’acquirente. Così tutta quella pletora di personaggi che gestiscono il mondo dell’arte – dai galleristi, ai mercanti, ai direttori dei musei ­– se ne sono disinteressati. 

Poi c’era l’annosa questione del linguaggio estetico e dei suoi significati. Dopo la Seconda guerra mondiale gli artisti, riprendendo le tesi di inizio secolo, si sono concentrati sull’uso dei nuovi linguaggi pensando che il concetto di rivoluzione sia insito nell’idea del cambiamento radicale. I colori e le tele diventano così sinonimo di conformismo e restaurazione mentre tutto ciò che non è tradizionale assume un’allure contestativa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: poverismo, concettualismo e via discorrendo sono il nuovo conformismo a cui bisogna guardare per non sembrare fuori dalla realtà. I rivoluzionari poveristi e concettuali sono corteggiati dal mercato e dai musei diventando essi stessi parte dell’odiato establishment

Fra le varie accuse rivolte a Guttuso vi è ancor oggi quella di essere stato comunista e che solo grazie al Partito, e non per suoi meriti, abbia potuto lavorare e diventare così potente. Probabilmente è vero, ma non è altrettanto vero che gli attuali mostri sacri dell’arte lo sono grazie agli industriali del lusso e ai banchieri? Quello che è certo in tutta questa diatriba è che se non conosci Palmiro Togliatti o François Pinault rischi l’anonimato. 

Altrettanto certo è che il mercato dell’arte oggi si sta riposizionando verso manufatti più duraturi e tradizionali. Via, quindi, legnetti o sassolini vari, video o foto, per riscoprire tutto quello che ancora può fruttare in termini economici, meglio se dimenticato o pompier.

La Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino dedica in questi mesi un’esposizione a Renato Guttuso, curata da Pier Giovanni Castagnoli, presentando una sessantina di opere che vanno dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. 

Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice della Galleria, scrive che la vicenda di Guttuso ci deve portare «a riflettere sul rapporto che intercorre tra artista, mondo e potere. Si può vedere ora cosa fosse, cosa rimane, e cosa sia futuribile nella sua arte? Certamente, alla luce delle installazioni video di denuncia della povertà e del razzismo nell’arte dell’era globalizzata, installazioni che incarnano una forma di realismo documentarista e che sono presenti già alla fine degli anni Novanta nelle grandi rassegne come Documenta 10 del 1997 ed esplose come tendenza nell’ultima edizione di Documenta 14 nel 2017; alla luce di tutto questo, sembra che i temi affrontati apertamente da Guttuso siano di nuovo in grande evidenza, sebbene le tecniche artistiche siano profondamente diverse». Insomma, conclude, è giunto il momento di guardare con altri occhi la sua realtà e la sua pittura «nelle mani, nell’abbraccio, nel pennello, nei pigmenti, nella canapa, nell’olio, nello zolfo, nel rame, nell’ossigeno, nella terra».

La mostra inizia con la Fucilazione in campagna del 1938. Quadro-manifesto dipinto pensando all’assassinio di Federico Garcia Lorca da parte dei franchisti e che ha come modello El 3 de mayo de 1808 en Madrid di Francisco Goya. Per arrivare agli Addii di Francoforte del 1968 che affronta in modo intimista la sua partecipazione al maggio francese. Fra queste due opere possiamo trovare la Dama alla finestra del 1942, con un impasto secco e terroso e dai toni che ricordano vagamente Georges Braque; La zolfara del 1953 pieno di forza e dai colori accesi e La battaglia di Ponte dell’ammiraglio del 1955 con Giuseppe Garibaldi che incita alla pugna i soldati con i volti di Luigi Longo, Gian Carlo Pajetta e Antonello Trombadori. Poi il grande quadro del 1972 dedicato ai Funerali di Togliatti. Un dipinto in bianco e nero costellato dal rosso delle bandiere. Guttuso ritrae i volti dei suoi amici, le donne, gli uomini, i bambini e Lenin. Presente fra la folla, ora giovane ora vecchio. Perché era lì, idealmente, in mezzo a loro. Un lavoro ad acrilico, veloce, fatto con collage di carta ritagliata, immagini ottenute proiettando delle foto direttamente sulla tavola, ritratti; al centro il profilo di Togliatti fra una corona di fiori. 

Poi nudi, interni, nature morte, uno studio per la Crocifissione. Mancano alcuni dipinti fondamentali come, per esempio, la Crocifissione del 1941 e la Vucciria del 1974, ma probabilmente non rientravano, almeno la Vucciria, nel tema dell’esposizione. Due i casti nudi che sono relegati in un boudoir seminascosto. Quasi come se al neorevisionismo artistico fosse associato un neopuritanesimo strisciante. Ne sono testimonianza i recenti casi di censura, fortunatamente rientrati, nei confronti di Hylas and the nymphs di John William Waterhouse del 1896 alla Manchester Art Gallery e la petizione contro Thérèse Dreaming di Balthus del 1938 al Metropolitan Museum di New York.