L’esposizione organizzata nella Sala del Torchio di Balerna dal Dicastero cultura del Comune, curata da Vito Calabretta, oltre all’intrinseco valore artistico delle opere pone l’accento ed evidenzia per la prima volta un inedito aspetto nel lavoro di queste due artiste. Sono raccolti disegni, tempere e acrilici, oli e incisioni, monotipi e prove d’artista realizzati dai primi anni Sessanta ad oggi e ci mette di fronte a una selezione ricavata da trenta anni di attività delle due artiste, Mirella Marini e Alice Marinoni.
Raggruppati in percorsi tematici e declinati in raffigurazioni ogni volta diverse, troviamo soggetti tratti dalla quotidianità che le due artiste, madre e figlia, condividono da sempre. Sono volti e ritratti di persone e animali, sono la bicicletta, gli alberi e il bosco, sono tracce di cibo e fiori, ma incontriamo anche immagini recenti che alludono alle migrazioni del Mediterraneo, all’emergenza dell’esodo, ai drammatici aspetti del momento storico attuale. Mirella Marini nasce a Genova, vive e lavora in Ticino alternando soggiorni in Portogallo, ha alle spalle una grande formazione nelle arti plastiche e incisorie e una lunga attività espositiva. Contraddistinte da una forte carica di matrice espressionista, da un segno potente e incisivo che delimita essenziali forme primarie in una sintesi quasi architettonica, le sue opere ci riportano molto spesso anche a riflettere sugli aspetti sociali e politici della contemporaneità che riguarda ognuno di noi.
Quando nel 1962 Mirella diventa mamma di Alice, sordomuta e autistica dalla nascita, i metodi delle Artiterapie, oggi così diffusi, stanno appena nascendo in Francia e in America, ma contrariamente a quanto potrebbe sembrare questo non ha niente a che vedere con le opere di Alice, così come non sarebbe esatto farle rientrare nell’Art Brut. Alice inizia presto a crescere e a condividere il mondo della madre, interiorizza il suo totale rapporto con l’arte che è ragione di vita, ne osserva attenta il lavoro, visita in continuazione musei e gallerie d’arte.
Se i suoi primi disegni in esposizione al Torchio presentano le strutture archetipiche primarie che troviamo in tutti i disegni infantili, ben presto si rimane colpiti dai lavori successivi dove un sicuro istinto circoscrive e domina lo spazio, un’innata sapienza compositiva sembra guidarla, dove dalla familiarità con le stesure del colore sembra trarre nutrimento vitale, e quasi misterioso è il rapporto immediato che riesce a stabilire con i materiali, come quando, ci dice sua madre, dopo averla vista incidere una lastra di rame, raccoglie da terra una lattina di metallo, la appiattisce e la utilizza.
Incontrando Alice in Galleria, tra le sue opere, mentre con gesti gioiosi e entusiasti con la mano ti invita ad avvicinarti alle sue opere, percepisci in lei la soddisfazione dell’artista realizzata, l’appagamento di chi si è espresso e ha comunicato con il mondo. A questo punto sarebbe logico dedurre che tra Mirella e Alice si sia stabilita una relazione di tipo gerarchico, come tra allievo e maestro, dove è la madre, con la sua conoscenza ed esperienza, a indirizzare la figlia lungo una precisa strada. Nulla che vada in questa direzione, ci dice Vito Calabretta, che volendo chiarire i motivi che portano al dominio dell’espressività nell’arte ha fatto dell’analisi di questo rapporto, della sua dinamica e dei suoi risultati uno degli obiettivi della mostra. «Nella scelta delle opere» ci spiega «ho evitato accuratamente di adottare ogni criterio di tipo cronologico e ogni dimensione di tipo pedagogico e terapeutico. Nella mostra si viaggia nel tempo in ogni direzione».
Se la condivisione di vita e di lavoro delle due artiste farebbe pensare a una forte simbiosi, il processo creativo le differenzia totalmente, anche se i due percorsi possono intrecciarsi, scambiarsi, condividere spazi comuni anche se le due artiste non lo avvertono. A volte è la figlia che imita la madre, a volte è la madre che si ritrova dopo decenni senza rendersene conto a riprendere lavori fatti dalla figlia, per esempio con una certa congruenza di piani, una certa struttura di forme. Ma in tutto questo, come ben si evince nella mostra, emerge come condizione irrinunciabile la totale autonomia delle due personalità che vivono un totalmente differenziato ma continuo e stimolante percorso di crescita. Si vedano ad esempio i due ritratti della ballerina di Flamenco: se la raffigurazione di Mirella esprime con matura e raffinata cultura un certo tipo di emozioni indefinite, ironiche o tragiche, Alice con pochi tratti cattura, fulminea e sintetica, solo la perfetta, concisa immagine di una ballerina.
Anche la serie di tele con vasi di fiori mostra chiaramente come le due impostazioni siano lontanissime, violento e quasi gestuale il segno di Alice, ricca di cromatismo e profondità l’immagine della madre, ma l’emozione poetica che trasmettono, mediata da due linguaggi espressivi diversi e lontanissimi, è ugualmente intensa. Nelle serie recente delle calzature, Mirella Marini colloca delle infradito abbandonate e perdute in uno spazio sabbioso dove troviamo striature dorate, il miraggio di chi attraversa il Mediterraneo e inseguendo una vita migliore può anche incontrare la morte. Anche Alice riprende il tema delle calzature, ma per lei rappresenta tutt’altro, le impronte dei piedi si immergono felici in un favoloso fondale azzurro, ci raccontano la vitalità del libero movimento, la scoperta gioiosa dei passi di chi conquista felice lo spazio del suo mondo.