Curiosa apparecchiatura per foto dall’alto legata a un piccione (www.cameramuseum.ch)


Archeologia fotografica

A Vevey un museo per gli apparecchi che hanno fatto la storia dell’immagine
/ 31.12.2018
di Giovanni Medolago

Vevey ama definirsi la ville de l’image poiché ha la fortuna di ospitare due autentici gioielli: il Chaplin’s world (v. «Azione» dello scorso 26 febbraio) e il «Museo svizzero dell’apparecchio fotografico». Situato in un antico palazzo sulla centralissima Grande Place, la sua collezione non è soltanto ricchissima, ma sarà fonte di parecchie scoperte anche per l’appassionato che ben conosce vite e opere di Daguerre, Fox Talbot o dei Fratelli Lumière.

Sono questi i nomi che ci aspettano nella prima sezione del Museo, «Alle origini della Fotografia», e certo costoro si possono considerare i Padri della Fotografia; ma nella miriade di apparecchi anche curiosi (il prassicoscopio o il fucile cronofotografico, tante per dirne un paio), ecco inserirsi anche le scoperte di due inventori svizzeri misconosciuti: il ginevrino Albert Darier e l’inventore di casa nostra Carlo Ponti (nato a Sagno nel 1824 e morto a Venezia sul finire del secolo). Il primo, già nel 1888, brevettò «L’Escopette» (lo schioppo), che utilizzava la tecnica Eastmann Kodak («Voi fate clik, noi facciamo il resto»), era leggera e maneggevole tanto da potersi utilizzare con una mano sola, ma era anche munita di un bi-piede per gli scatti più impegnativi. Il Ponti nostrano invece se ne andò a Venezia dove dapprima presentò l’aletoscopio, poi il megalotoscopio, entrambi in grado di produrre immagini di grande formato.

I due non ebbero molta fortuna, ma sorte ancor peggiore toccò al francese Hyppolite Bayard, che aveva realizzato dei dessins photogéniques ben prima del 1839 (data di nascita del dagherrotipo), ma su pressione del Primo Ministro dell’epoca, Francois Arago, fu costretto a dare la precedenza a Monsieur Daguerre.

L’Escopette è solo una delle tante rarità in mostra al Museo, che però ci fa anche sognare. È il caso della ricostruzione di un atelier fotografico di fine XIX secolo – in scala 1:20 – dove il cliente entrava nella sala di posa e dopo un po’ usciva col suo bel ritratto. Magari ritoccato come soleva farsi già quando la Fotografia muoveva i suoi primi passi: una stampa dell’epoca ci mostra come un artigiano (fotografo/ottico/pittore) sapeva anticipare i «miracoli» del Photoshop.

Sono parecchie le teche dinanzi alle quali al visitatore scapperà un nostalgico sorriso (il set con 5 lampadine per flash) oppure un’autentica risata. È il caso del Pigeon panoramic, un nonno degli attuali droni: concepito dal dr. Neubronner nel 1910, era un apparecchio sistemato sotto un piccione e munito di obiettivo in grado di realizzare foto a 180°. Accanto all’aspetto talvolta ludico, ecco che i pannelli didascalici del Museo non solo riassumono ogni tappa del progresso tecnico, giungendo sino alla grande rivoluzione digitale, ma offrono anche una lettura sociologica della Storia della Fotografia.

La rivoluzione Leica di Oscar Barnack (suo il primo esempio di fotogiornalismo, quando nel 1920 documentò l’alluvione della sua città nell’Assia); l’apparecchio ha un prezzo inaccessibile in Giappone ed ecco dunque che tre ragazzi si mettono d’impegno per poterla offrire al pubblico nipponico: nasce così la Canon che nel 1936 presenta la sua prima apparecchiatura. Di ritocco in ritocco, questa sarà in grado di strabiliare, durante la Guerra di Corea, i fotografi occidentali, invidiosi del portento nelle mani dei loro colleghi del Sol Levante: sarà l’inizio della supremazia giapponese sul mercato mondiale.