Benché non siano pochi i suoi testi splendidi, non sorge alcun dubbio su quale sia il capolavoro di Alberto Arbasino. Fratelli d’Italia, l’opera fondamentale dello scrittore appena scomparso, è un libro senza trama, un romanzo-conversazione traboccante di riferimenti culturali e un infinito work in progress per i tre ampliamenti successivi e per il poderoso risultato finale: 1371 pagine nell’edizione Adelphi, definitiva a meno di sorprese postume. Ma che cos’è, allora? È un incessante reportage tra le località italiche più glamour (con il Festival dei Due Mondi di Spoleto come punto focale) e al tempo stesso uno sfavillante lunapark di intelligenza e di leggerezza nel quale ci è stato consegnato il più compiuto ritratto degli anni Sessanta, il decennio in cui tutto sembrava possibile e nel quale, prima del micidiale rullo compressore del turismo di massa, ci si poteva ancora credere gli estremi epigoni del Grand Tour. Così come in Tenera è la notte di Fitzgerald è fissata per sempre l’immagine dei favolosi anni Venti, in Fratelli d’Italia Arbasino ci ha regalato la fotografia di un’epoca irripetibile, quella stessa di cui i protagonisti del Sorpasso di Dino Risi rappresentano la, seppur straordinaria, versione cialtronesca.
Come sa ogni suo lettore, questo poderoso regesto di un’estate di scorribande di due amici coltissimi e un po’ blasé si è nutrito di molte altre scritture arbasiniane, a cominciare dai fluviali articoli per «Repubblica» (spesso composti, dicevano le malelingue, tra i banchi di Montecitorio negli anni del suo impegno politico), così come di altri materiali disparati che venivano poi fusi nel calderone del suo opus magnum.
Infaticabile viaggiatore-recensore, mentre si leggeva una sua tempestiva critica teatrale di uno spettacolo in cartellone alla Comédie française, lui era già al festival di Glyndebourne per una rara messa in scena rossiniana, e poi di corsa alle Rencontres internationales di Ginevra per ascoltare Starobinski o ai Bayreuther Festspiele per i Lieder di Schubert interpretati da Fischer-Dieskau. E in mezzo a tutto ciò sarebbe stato imperdonabile mancare un ricevimento di Zeffirelli nella sua villa di Positano.
Nonostante la sua inclinazione cosmopolita, questo lombardo di provincia (era nato a Voghera nel 1930) fu presto sedotto dalla Roma della dolce vita. Tra quell’ambiente radical chic che s’incontrava a Via Veneto, a Fregene o alle Frattocchie, e la cultura internazionale, egli fu per certi versi l’intermediario (emblematica la celebre intervista-conversazione in francese con Borges).
Alla letteratura padana, tuttavia fu sempre fedele, e forse nel suo intimo aspirava ad essere considerato l’ultimo esponente dell’abusata etichetta della «linea lombarda», che partendo dal Maggi arriva fino a Tessa e Loi e a cui vanno inclusi, sul versante della saggistica pittorica, almeno i nomi di Roberto Longhi e Giovanni Testori. Manzoni e Gadda furono tra i suoi autori di riferimento e all’autore del Pasticciaccio dedicò un’eccentrica biografia (L’ingegnere in blu) nella quale l’identificazione con il più illustre modello è tale da produrre in quelle pagine una mimesi stilistica conturbante. La cifra più evidente di questa sua affinità stilistica con l’espressionismo (declinato a dire il vero più sul versante saggistico che su quello propriamente letterario) è rappresentato dalla sua predilezione per gli elenchi, quelle matasse di parole che non possono essere districate, i gliòmmeri, come avrebbe detto l’Ingegnere. Perciò come non includere Arbasino «in una così ben combinata compagnia di atrabiliari»?
Non si possono non menzionare, nella sua vasta produzione saggistica, almeno i due splendidi volumi di Ritratti, nei quali «ogni affondo critico vale un libro intero» e in cui la verve del ritrattista guida il lettore in un’inebriante scorribanda nei bassifondi della high society letteraria. Superbo mescidatore di cultura alta e bassa, egli rottama le categorie stantie della storia letteraria accostando provocatoriamente le sorelle Brontë a Carolina Invernizio, ma perfino Kurt Weill a Lando Fiorini, sempre con quella sua inconfondibile leggerezza (che è tutto il contrario della superficialità). E torna qui alla memoria la folgorante (e saccheggiatissima) tripartizione arbasiniana del cursus honorum del letterato italiano, secondo la quale si debutta sul proscenio delle patrie lettere come «brillante promessa» e si termina come «venerato maestro». La categoria intermedia va sussurrata in un orecchio.
Il suo infallibile istinto di essere sempre nel luogo giusto al momento giusto lo tradì solo una volta, ma clamorosamente: nell’estate del 1960 snobbò le olimpiadi di Roma, preferendo partire per la Grecia. Al ritorno capì di aver preso un abbaglio, quell’avvenimento non fu solo una manifestazione sportiva. Per il jet set e la mondanità che vi confluirono da tutto il mondo, si materializzò durante quel mese di gare romane un fervore culturale e mondano incomparabile. Pur mancando l’appuntamento con l’apice della dolce vita romana, di quel clima culturale Arbasino fu, quanto e forse più di Flaiano, uno splendido cantore.