La portinaia e l’odore di cavolo. Accadeva quando c’erano le portinerie, le pentole bollivano in privato e non in televisione. Muriel Barbery in L’eleganza del riccio prende atto del modello classico e variando sul tema inventa una concierge raffinatissima. Sta nel retro-portineria – l’indirizzo è rue de Grenelle, Parigi – a mangiare raffinatezze e a vedere film di Kenji Mizoguchi (bravo, ma diciamo che prende i suoi tempi come l’altro giapponese Ozu). Lo fa di nascosto. Agli occhi degli inquilini appare come la classica portinaia che torna dalla spesa con il sedano che spunta dal borsone, e cucina cavolfiori o verze che impuzzoliscono la guardiola. Lo fa per non scatenare i curiosi: conformarsi al modello evita un sacco di domande.
Nel Ventre di Parigi di Emile Zola, ambientato ai mercati generali delle Halles (come Irma la dolce di Billy Wilder: Jack Lemmon scarica le casse di notte e di giorno si finge miliardario per sedurre Shirley MacLaine), un banchetto vende zuppa di cavoli. Si riconosce dall’odore, oltre che dalla povera gente intorno. Oggi diremmo «cibo di strada», mentre il cavolo entra nelle diete drastiche: tre volte a settimana verza bollita e scondita, si dimagrisce sicuro.
Entra pure nelle diete chic. «Il cavolo è uno degli ortaggi più antichi, risale al Paleolitico», scrive Eveline Bloch-Dano in La favolosa storia delle verdure (add editore). Tranquilli, dunque: se seguite la dieta paleolitica potete cibarvene, avendo cura di procurarvi i germogli spontanei che ancora crescono sulle falesie dalla Manica. I nostri antenati cominciano a coltivarlo nel Neolitico, un po’ di semi sono stati ritrovati nelle grotte lacustri svizzere. Alla famiglia appartengono il cavolo cappuccio, la verza, il broccolo, il cavolfiore – un frattale, come il cavolo romano con punte che paiono uscite da una sfilata di Jean-Paul Gaultier – i cavoletti di Bruxelles.
Se la biografa racconta tutte queste cose attorno all’umile cavolo, figuriamoci cosa sa – e cosa scrive nel delizioso libretto pieno di citazioni letterarie e pittoriche – di ortaggi più nobili, come i cardi o i carciofi o i piselli. Françoise – la cuoca di Zia Léonie in Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust – preparava la domenica i cardi al midollo. Ebbero il loro grande momento quando Grimod de La Reynière – che nel 1802 con l’«Almanach des Gourmand» inventò la critica gastronomica – stabilì che un piatto di cardi squisito basta per chiamare un cuoco «artista». Il più rude Wilhelm Goethe si meraviglia invece, nel suo Viaggio in Italia, vedendo due gentiluomini siciliani che a lato di un sentiero, armati di coltellini, mangiano i cardi selvatici.
I carciofi son parenti, hanno una storia altrettanto avventurosa: prima guardati con sospetto perché vengono da lontano, poi ricercati perché afrodisiaci. Anche il pomodoro fu guardato con diffidenza, all’inizio. Arrivava da lontano, somigliava alla velenosissima mandragora – la pianta delle streghe per gli antichi, noi diciamo che ha proprietà allucinogene. Neanche si capiva se era un frutto oppure una verdura, all’inizio veniva coltivato solo come pianta ornamentale (e per questo manca nei dipinti dell’Arcimboldo).
Quanto alla patata – come il pomodoro appartiene alle solanacee, famiglia che comprende piante tossiche come la belladonna – ci volle nel Settecento tutta l’ostinazione dell’agronomo e nutrizionista Antoine Auguste Parmentier perché i tuberi – considerati buoni per i maiali, non per i cristiani – entrassero della dieta degli europei. A lui dobbiamo la zuppa parmentier. La ricetta che nobilita le patate con l’aggiunta dei porri e della panna, facendone un «potage» tanto temuto dagli ospiti al banchetto del Gattopardo (il principe, che conosce i suoi paesani, evita il piatto alla moda e fa servire un sontuoso timballo).
I mangiatori di patate – esiste qualcosa di più appetitoso di una patata bollita? tutta la cucina di Cracco non vale il confronto – gliene sono grati. Tranne forse gli irlandesi, che pigramente si misero a coltivare e a mangiare solo tuberi. Quando metà dell’Ottocento la pianta si ammalò, la grande carestia fece un milione e mezzo di morti (un altro milione emigrarono, perlopiù negli USA). Evelyne Bloch-Dano alla carestia fa solo un accenno, non vuole turbare i cuochi e i lettori i con storie di fame nera. Preferisce raccontare la moda parigina dei piselli. Finita bruscamente – si sa come vanno queste cose – quando Nicolas Appert trovò il modo di conservarli nelle scatole di latta.