Personaggi potenti o alla ricerca di una forte identità. È questo, mi sembra, uno dei legami che unisce i primi film del concorso internazionale e le due opere in lingua italiana visti nei primi giorni del Festival del film di Locarno. Personaggi che acquistano tridimensionalità grazie all’interpretazione degli attori.
Seconda – così si chiama la protagonista del film ticinese Love Me Tender, presentato nella sezione Cineasti del presente nei giorni scorsi – è malata. Ma questa è anche la seconda opera della regista Klaudia Reynicke, dopo Il nido, presentato sempre a Locarno nel 2016. Ed è un passo in avanti importante verso una strada originale e anche piuttosto interessante.
Il film racconta, appunto, di una donna affetta da una grave forma di agorafobia che, quando i genitori l’abbandonano (la madre muore e il padre se ne va) è costretta a fare i conti con le proprie ansie e le paure. Incapace di solcare l’uscio di casa, accoglie gli sgarbati messaggi telefonici di un ufficiale giudiziario e fa entrare un ragazzo che raccoglie bottiglie vuote. Da quel momento prende coraggio e, armata di una tuta blu, cerca la sua strada. Una sorta di supereroina, anzi di anti-supereroina, come ha evidenziato la stessa autrice.
Love Me Tender è un film che nella protagonista Barbara Giordano ha il pilastro più importante di tutta la struttura narrativa. E da questo punto di vista la prova è ampiamente superata e il castello ha retto bene. Qualche piccola crepa il film l’ha mostrata nei personaggi di contorno o in alcune battute poco efficaci, ma – anche grazie alla scelta di limitare gli spazi, i protagonisti e i temi, è riuscito a essere convincente.
Restando alle produzioni di lingua italiana, ma parlando del film che ha inaugurato la Piazza Grande di questa 72esima edizione e cioè Magari, possiamo dire che l’esperimento è riuscito solo a metà. Al suo debutto dietro la macchina da presa Ginevra Elkann (rampolla della famiglia Agnelli-Elkann e sorella dei noti John e Lapo) ha mostrato cose discrete, senza però toccare punte eccelse. Una commedia sentimentale che racconta un inverno particolare. Tre fratelli figli di genitori separati sono letteralmente scaraventati dalla madre nelle braccia del padre; un regista fallito alla continua ricerca di una buona idea e che non ha la minima idea di come fare il padre. È un apprendimento reciproco, quello al quale assistiamo, dove il padre e i figli cercano di capirsi e di trovare un linguaggio comune.
Lontano dalla grande tradizione della commedie all’italiana, anche Magari come Love Me Tender punta comunque tutto o quasi sulla forza degli attori: Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher riescono a tenere legata la storia, i tre giovani attori in erba e l’attenzione dei pubblico. A fare da sfondo il lungomare di Sabaudia con le sue luci e diverse citazioni degli anni 90: dal Game Boy ai motorini, passando per l’imitazione di Lino Banfi alla macchina da scrivere e per i telefoni con il filo.
Così come punta parecchio sul protagonista uno dei film in competizione che finora ci ha più convinto: il brasiliano A Febre della debuttante Maya Da-Rin. Lui è un nativo dell’Amazzonia che vive nella grande città di Manaus dove lavora come guardiano al porto. Un personaggio diviso tra il passato (le sue origini e il richiamo della sua terra che viene esplicitato in diversi modi e attraverso la figura del fratello) e il futuro, rappresentato dalla figlia, la quale ha ottenuto una borsa per studiare medicina nella lontana Brasilia.
Ma oltre alla naturalezza del protagonista, A Febre ha anche il merito di avere una struttura formale rigorosa. Soprattutto la costruzione dell’immagine è interessante in quanto la regista spesso divide il grande schermo a metà grazie a elementi di scena (come un muro, un container, ecc). In questo modo si esplicita, a livello formale, l’appartenenza o meno, del personaggio a uno spazio, a un luogo. Un concetto, quello dell’appartenenza, fondamentale e sottolineato anche nei discorsi famigliari e in quelli con il collega di lavoro.
Pure un secondo film, passato in competizione, si risolve nella bravura degli attori. Douze Mille di Nadège Trebal (anche attrice protagonista) parla di povertà e di amore, di fame e di sesso. E lo fa ponendo al centro della scena Frank e Maroussia: una coppia innamorata che deve trovare il modo di sopravvivere in un paese che offre poche opportunità. E allora lui è costretto a partire per guadagnare 12mila euro, l’importo sufficiente per vivere un anno. Con la camera quasi sempre incollata ai loro volti e ai loro corpi, Douze Mille gioca facile con l’identificazione e ricorda maestri come i fratelli Dardenne o Kechiche. Ma il gioco non infastidisce troppo. Anche se forse, alla fine, manca di un certo brio e di piccoli dettagli narrativi alla Ken Loach per essere un grande film.
Meno convincente degli altri il siriano Fi al-thawra. La rivoluzione armata in quella terra, tra il 2011 e il 2017, è filmata da una donna che non si vedrà mai. Se nell’intenzione doveva essere una sorta di diario di guerra in realtà è diventato un diario di quello che si vorrebbe fare, di come sarebbe meglio organizzarsi. Difficile trovare un film che parli di guerra in modo poco spettacolare. Questo lo è perché filma un gruppo di attivisti politici mentre discutono di un volantino o di come rinnovare il Paese. Litigi e scontri verbali a simboleggiare la difficoltà di unire il popolo siriano. Ma che, alla fine, allontana anche noi, spettatori, al film.