Tanto si dice e si è detto sull’amore. «O Romeo, Romeo, ma perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, rinuncia al tuo nome; e se non vuoi farlo, basta che tu giuri di essere il mio amore perché io non sia più una Capuleti». Oppure: «Quando leggemmo il disiato riso / essere baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante». Ma anche «A me pare uguale agli dei / chi a te vicino così dolce / suono ascolta mentre tu parli / e ridi amorosamente». Saffo poi continua: «Subito a me / il cuore si agita nel petto / sol che appena ti veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie.» Shakespeare, Dante, Saffo (nella traduzione di Salvatore Quasimodo), poche parole immortali che descrivono e descriveranno sempre il sentire dell’amore. Amore per altri, Romeo, Paolo, l’amante di Saffo.
È più difficile invece trovare parole così alte per una forma di amore necessaria a ogni altro amore. Parliamo dell’amore per se stessi, non certo inteso come narcisismo o egoismo. Esiste un amore per se stessi che innanzitutto significa accettazione. Amore per quello che si è, pacificazione con le circostanze che la vita ci propone. Credo sia impossibile amare altri se non ci si ama. Potranno presentarsi anche Romeo Montecchi e Paolo Malatesta, ma non li si riconoscerà come quei grandi amanti che furono se non si è in pace con se stessi. Si sarà tutte preoccupate di essere all’altezza, ci si considererà vincitrici alla lotteria dell’amore, si tenterà di incarnare la donna per loro ideale, forse.
Esiste invece una forma di amore che apre a tutte le altre, che è quella che permette di vivere bene anche soli, o almeno quando ci si sente soli, indipendentemente dal dato oggettivo. È un amore che attraversa diversi campi. Amore per il tempo che passa, per il corpo che cambia, per la fragilità dei sentimenti e dei pensieri. Il tempo: scorre, inutile maledirlo. È un bene, non è solo avvicinarsi alla fine, quando aumentano gli anni ti chiamano sempre «signora», ti cedono il posto sugli autobus (e non è una vergogna), hai tanti sconti sulle ferrovie, ma soprattutto un’autorità morale che potevi sognarti, prima. Per gentilezza o per opportunità ti fanno parlare, bastano due parole e le prendono in considerazione. Quando passano gli anni, sei libero di non dimostrarti sempre aggiornato. Siccome sei un – sia benevolmente detto – dinosauro, non importa che tu sappia ballare, conosca gli ultimi trapper, abbia in punta di lingua film e spettacoli recentissimi.
A una certa età, puoi dichiarare che rileggi solo Shakespeare, e ne godi pure. Che non vai allo spettacolo delle ventidue, perché poi ti viene mal di testa. Che dei giornali guardi solo un paio di rubriche, che ti interessano, mentre il resto ti annoia, le news arrivano continuamente su tutti i media, e gli editorialisti sono così noiosi. Certo, non è più il tempo dei bagni di mezzanotte, di una maglietta, jeans e via, nemmeno di strafogarsi di salsicce. Prendere un autobus al volo è ormai un’acrobazia quasi impossibile, la prudenza consiglia di arrivare sempre in anticipo, non si sa mai gli imprevisti. Ma se amiamo e abbiamo amato i corpi faticosi dei nostri genitori, se non abbiamo imputato loro nessuna rovina fisica o mentale, se siamo pronti ad accettare le mancanze di chi ci vive accanto, allora perché non dovremmo avere tenerezza anche per il nostro corpo che, come è normale nella vita, invecchia?
Ci sono poi i vuoti di memoria: come abbiamo detto dei nonni, del papà e della mamma, si ricordano meglio i tempi lontani piuttosto che il menù della sera prima. Non è un problema grave, usare un’agenda, scrivere con la penna o su un pc, bastano per non perdere per strada le cose importanti. In cambio, finalmente la pace: i napoletani dicono chi ha dato, ha dato ha dato. Un mio professore, di Capri, diceva alla fine di ogni lezione di ebraico «Chi capisc capisc, chi non capisc pazienza».
D’altra parte ogni minuto che passa ci avvicina alla «livella», come disse Esposito Gennaro netturbino, al nobile marchese (nella famosa poesia di Antonio de’ Curtis, Totò): «Ma chi ti credi d’essere, un dio? Qua dentro, vuoi capirlo che siamo uguali? Morto sei tu, e morto son pure io; ognuno come a un altro è tale e quale». Risponde il Marchese: «Lurido porco! Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi e Reali?». «Ma quale Natale, Pasqua e Epifania! Te lo vuoi ficcare in testa, nel cervello che sei ancora malato di fantasia? La morte sai cos’è? è una livella. Un re, un magistrato, un grand’uomo, passando questo cancello, ha fatto il punto che ha perso tutto, la vita e pure il nome: non ti sei fatto ancora questo conto? Perciò, stammi a sentire, non fare il restio, sopportami vicino – che t’importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi semo seri, appartenemo a’ muorti».
Non sono contraria alla chirurgia estetica, può risolvere molti problemi. Però. Però non si possono guardare capelli trapiantati e zigomi innalzati. Labbra gonfie e fronti spianate. Ragazzi, ragazze, non avete sedici anni, non li avrete mai più. Ma voletevi bene per come siete, amatevi e sarete amati, perché l’amore vero non guarda la ruga (che ognuno si è conquistato, come diceva Anna Magnani), ma vi ama per quello che siete. Non è così? Cercatene un altro. Un’altra, qualcuno che cerca voi di persona, che è disposto ad avere cura di voi, nel bene e nel male, e voi di lui, di lei, vi curerete sempre. Non sono parole fredde del rito matrimoniale, sono l’essenza di ogni amore. Vero.