«Io ti amo nelle cose semplici e pure, / in tutto ciò che è elementare e sacro, / … / ti amo nella mia poesia / e nella mia umiltà mai redenta, / ma soprattutto ti amo perché sei un poeta / come me e mi comprendi / …» ecco, come colpi che dal cuore vanno al sentire, dal sentire al cuore, i versi d’amore di Alda Merini al suo secondo sposo e poeta di origini napoletane Michele Pierri, tratti dalla raccolta di recente uscita per la bianca di Einaudi dal titolo Confusione di stelle (pp. 128, euro 12.50) per l’ottima curatela di Riccardo Redivo ed Ornella Spagnulo, ai quali si deve il ritrovamento delle poesie, tutte inedite e risalenti al periodo 1982-85, tra i faldoni della corrispondenza del critico letterario Oreste Macrì.
E proprio ora nel decennale della sua morte, la poetessa milanese è presente più che mai nella testa di tanti lettori e in speciale modo dei più giovani perché dal suo primo libro La presenza di Orfeo del 1953 sino all’ultimo, Il carnevale della croce, uscito nel 2009 proprio per Einaudi poco prima della morte, ha mantenuto sempre una salubrità di spirito, un bagliore, uno scatto di nervi applicato alla lingua di chi per vitalità appartiene alla giovinezza del sentire e per incanto sempre vi rimarrà; anche se certi dottori con le loro cartelle della verità, cercheranno di farle per tanti anni lo sgambetto: «Se lo psicanalista ammalato / smettesse di versare argento / sulle parole infuocate, / … / allora scoprirebbe l’anima / e la centrale del male. / …» nella notte della degenza manicomiale che la ingoiò come un novello Orfeo nell’antro nero.
Ecco però il miracolo della poetessa che mutò ben presto quel posto cavo in quello di una sibilla grazie alla sua tempra interna che mai affievolì. Difatti da quel luogo disperato, trasse forza per vaticinare lungamente negli anni a seguire già dal libro La terra santa edito nel 1984 da Scheiwiller e prefato da Maria Corti, quale fosse il senso dei giorni attraverso quella continua attività di sfrondamento e spoliazione della parola all’interno della quale il mondo alto e basso riusciva miracolosamente a convivere dando ad essa la forza dell’immanenza come soffiata però dentro una bolla di trascendenza: «… / Il mio primo trafugamento di donna / avvenne in un angolo oscuro / sotto il calore impetuoso del sesso, / ma nacque una bimba gentile / con un sorriso dolcissimo / e tutto fu perdonato. / …».
E se scorriamo i primi versi della sedicenne, risalenti alla fine dei ’40, pieni di velature esistenziali ma anche di abbandoni: «Se tutto un infinito / ha potuto raccogliersi in un corpo / come da un corpo / di sprigionare non si può l’Immenso? // …» e poi a seguire questi della metà degli anni ’80 sempre dal libro Confusione di stelle, alcuni dei quali dai toni stilnovistici ancora sull’amore per Pierri: «… / io mi abbandonava ai suoi baci, / tutta egli nel cuore sì mi prese / ch’io confusi il mio giorno corrisposto, / e non mi stanco di quel suo canto / ove arde dentro lo spirito Santo», è chiaro come Merini abbia mantenuto intatto quel suo tono di abbagliato stupore, non per la vita astratta ma per quella che concretamente si dispiega nell’attimo.
Pochi i benemeriti che davvero la intesero, Spagnoletti certo, che la antologizzò nel 1950, Oreste Macrì, Giorgio Manganelli suo primo amore, Scheiwiller, Pasolini che intervenne con un saggio sulla rivista «Paragone», parlando di linea orfica, anche se poi Ambrogio Borsani nell’ottima introduzione all’opera II suono dell’ombra (poesie 1953-2009) per Mondadori, afferma come già altri: «…non ha più senso dibattere sull’orfismo, sulla spontaneità… ma certo di una poesia di forte intensità emotiva…» e Maria Corti curatrice delle opere più importanti, poi Raboni che da gran poeta capì la sua forza visionaria, prefacendo per Crocetti nel 1988, l’antologia Testamento e recensendola nel 1990 senza risparmiarsi sul «Corriere della sera» ed infine Paolo Di Stefano che si batté perché Einaudi la pubblicasse.
Alda Merini poetessa dei Navigli ricordiamolo, fu sempre affamata di relazioni e non solo nella seconda parte dell’esistenza, perché affamata di vita, e certo la sua scrittura sin dall’inizio è stata vicina a quei grandi mistici come san Juan de la Cruz, dove il verso corre sempre a rimbalzo tra due vertici opposti, quello della pulsione spirituale e l’altro del contatto fisico, organico; ecco per la poetessa se uno dei due apici mancava, l’altro perdeva forza e tutto si spegneva. Così dice alla moglie di Oreste Macrì sempre in Confusione di stelle: «… / Del tuo essere giovane e / selvaggia, / Albertina, non ricordi più nulla, / ma quel tuo primo amore / ha una parola / dolce di perla nello stanco / seno».
Ma ciò che di questa poetessa è lì ad aleggiare sulla nostra quotidianità, è il suo raro insegnamento di donna resistente, per usare un termine corrente, seppur strapazzata e sgualcita dalla vita sin da giovane. Allora all’incrocio dei suoi tanti libri, delle tante nuove sorprendenti poesie, è come rivederla camminare all’angolo di Ripa di Porta Ticinese, dentro certi suoi vestiti sgualciti ma con le braccia aperte verso gli amori della vita. Eccoli lì uno accanto all’altro a riguardarla e ringraziarla, formano inconsapevoli la scia felice e dolente di tutte le sue parole.
E nella poesia congedo del libro così piena di presentimento, datata 1981, al suo primo marito Ettore Carniti, che difatti morirà di lì a poco, ancora Alda è capace di restituirci frammenti alti di amore disperato che noi tutti dovremmo far nostri per poi donarli a questa distratta ed avara società: «Caro, io e te siamo soli, / i nostri profili si stagliano contro il vento / da innumeri anni oramai, / ci teniamo per mano / come andassimo al giudizio di Dio / che tarda troppo a venire; / … / e io ho raccolto ogni tuo strascico di anima, / me ne son fatta un forte mantello, / perché io e te siamo soli, / … / e allora abbiamo la pelle bruciata dal vento, / dalle piogge, dal sole, / perché tacendo abbiamo fatto un lungo discorso / con l’Eterno, con Dio, / …».