Ajmone, ballare fa bene

La danza di Annamaria Ajmone abita e riempie spazi immaginari
/ 13.04.2020
di Giorgia Del Don

Nell’universo della danza contemporanea italiana Annamaria Ajmone è di sicuro una figura a parte. Malgrado sia ancora relativamente giovane (è nata nel 1981), la sua singolarità ha da subito sedotto pubblico e critica che non esita a definirla come «una delle danzatrici più talentuose del panorama italiano». Un riconoscimento che sembra non spaventarla ma che al contrario nutre la sua innata curiosità e rende la sua riservatezza ancora più affascinante.

Paladina di una danza malleabile che si trasforma in materia porosa e fluida, al contempo umana e vegetale, Annamaria Ajmone fa parte di quel gruppo di interpreti e coreografe (insieme all’immancabile Cristina Kristal Rizzo, la discepola di Romeo Castellucci Silvia Costa, l’inclassificabile Silvia Calderoni o ancora la rivoluzionaria Chiara Bersani) che destrutturano e riconsiderano non solo il ruolo della danza, ma anche quello della donna. Un’impresa di certo non facile se consideriamo le logiche patriarcali che regolamentano purtroppo troppo spesso il panorama della danza contemporanea italiana (e non solo).

Il corpo, le relazioni complesse che instaura con il luogo che lo accoglie e che lui stesso ingloba e trasforma, diventa strumento plasmabile e in costante mutazione: né maschile né femminile, né umano né animale, ma nemmeno vegetale o virtuale, bensì tutte queste cose insieme verso la costruzione di qualcosa di nuovo e inafferrabile. Quella di Annamaria Ajmone è una danza che respira, ampia e allo stesso tempo satura di piccoli dettagli che la rendono grandiosa. Una danza che ci invita a esplorare paesaggi inaspettati.

Sebbene il linguaggio del corpo sembri per Ajmone una seconda natura, si avvicina alla danza contemporanea abbastanza tardi, a ventitré anni, dopo una laurea in Lettere Moderne all’Università di Milano. È al corso per danzatori dell’Accademia Paolo Grassi, dove si privilegia la tecnica del così detto «teatrodanza» basata sul lavoro di Pina Bausch, che si forma. Fra le sue referenze cita tanto ballerine e coreografe come l’islandese Erna Omarsdóttir e la sua danza ibrida, Ariella Vidach che esplora le relazioni possibili fra danza e nuove tecnologie, o più in generale la corrente detta della «danza belga», precisa e fluida come la lava di un vulcano, quanto filosofi: Heidegger in primis (il suo riferimento teorico) o biologi (con i quali ammette che amerebbe collaborare). Una passione per la contaminazione delle discipline che si sente nella sua danza, sorta di catalizzatore di un mondo originalissimo.

Se dovessimo definire il lavoro di Annamaria Ajmone in due parole, queste sarebbero «corpo» e «spazio» in quanto strumenti d’indagine del mondo che ci circonda, così come ognuno di noi lo percepisce. Il corpo come architetto di uno spazio che solo lui sa abitare, che ingloba e fagocita prima di essere a sua volta trasformato da esso. Un andirivieni fra soggettività e oggettività, diluizione e concentrazione, che trasforma ogni piccolo movimento (delle mani, delle dita dei piedi, del viso) in qualcosa di prezioso e fondamentale. Il vissuto è sempre il punto di partenza dei suoi lavori che, a parte Tiny (premio DNA 2014), non sono mai concepiti per una scena teatrale ma al contrario nascono proprio dall’incontro del suo corpo, e quindi della sua propria soggettività, con lo spazio che la circonda.

Il corpo atletico e poroso di Annamaria Ajmone assomiglia a una pianta parassita che si insinua in uno spazio per trasformarlo in scena, in un luogo abitato, esplorato, annusato, assaporato. Allo stesso tempo, gli oggetti che esplora (un camino antico, per esempio, come nel caso di Innesti, progetto creato per l’Istituto Italiano di cultura di Parigi nell’ambito del Progetto di pratiche d’abitazione contemporanea) ne plasmano il corpo; la storia che abita i luoghi che «innesta» ne influenzano i movimenti. Come una vera e propria urbanista, la coreografa abita con la sua danza una serie di spazi atipici (rispetto alla scena teatrale), entra in osmosi con essi, instaura un dialogo con la superficie che li compone e con la storia che li accompagna. Regala al luogo le sue sensazioni corporali, le ritrascrive coreograficamente trascinando con sé gli spettatori che riscoprono letteralmente lo spazio che li attornia.

Trigger (con musiche di Palm Wine, non a caso fedele collaboratore di Cristina Kristal Rizzo) è emblematico di questo potente rituale. Sistema mobile composto da un rettangolo lungo il quale si siedono gli spettatori, l’apparato scenico si organizza in modo differente secondo lo spazio che occupa, come un ring dentro al quale si concentra l’essenza stessa del luogo che lo ospita. Il rettangolo introdotto nello spazio prescelto dalla coreografa ne ridisegna le proporzioni e allo stesso tempo condiziona la sua danza, rimettendo in questione la nostra stessa oggettività.

Paesaggi coreografici in costante mutazione che fanno parte di un solo e unico immaginario: originale e mutevole. Al di là delle riflessioni teoriche che la compongono, la danza di Annamaria Ajmone resta comunque sempre ludica e intrigante (affascinante l’utilizzo di gesti e suoni che rimandano al mondo animale) perché come dice lei stessa «ballare fa bene». Una gioia che si legge sul suo viso, espressivo come pochi: senza tempo e senza genere, giocoso ed enigmatico, costantemente abitato.