È stato un Festival di Cannes diverso: in pratica, non c’erano gli americani. Succede per la prima volta; e non è cosa da poco. Da quando il cinema esiste, Hollywood l’ha fatta da padrone. Comunque rassicuratevi: se è certamente in atto un cambiamento radicale nel cinema, c’è da scommettere che avverrà da quelle parti. Non a caso è l’americanissimo Netflix, con la sua indifferenza per lo spazio delle sale, ad agitare le acque. Aggiungete Weinstein e la tardiva crociata nei confronti di un universo che fino alla 71esima edizione ha assegnato una sola Palma a una donna, era il 1993 e Jane Campion la vinse con Lezioni di piano. C’è da meravigliarsi se a Cannes, peraltro invasa da esponenti del business americano, concorrono solo paio di pellicole targate Hollywood? Occorre accettare la proiezione, ma solo in seconda battuta (cioè dopo il debutto negli Usa), dell’insignificante Solo: a Star Wars Story? Meglio digerire l’idea che gli americani sembrino ormai preferire Venezia o Toronto, in una stagione, quella autunnale, che li avvicina maggiormente al prediletto appuntamento degli Oscar.
In un contesto del genere consola il fatto che le scelte della fulgida Cate Blanchett e compagni non abbiano ovviato del tutto a considerazioni squisitamente estetiche e strettamente cinematografiche. A cominciare da quella splendida Palma d’Oro assegnata a Shoplifters (Un affare di famiglia), un film giapponese ventuno anni dopo L’anguilla di Shohei Imamura. È un titolo emblematico, quello del film di Kore’eda Hirokazu, autore nel 1995 del magnifico esordio di Maborosi, seguito da (quasi) capolavori come After Life e Nobody Knows, Still Walking e Father and Son. Per la quinta volta a Cannes, Kore’Eda non è soltanto il cineasta delicato di un’emozione che qui raggiunge il proprio apice, ma un cesellatore della cellula famigliare, poeta della filiazione, dei rapporti anche conflittuali fra generazioni. Oppure, come qui, di una solidarietà che dilaga nel racconto: Shoplifters s’inventa con humour e grazia ai margini della società giapponese.
La sempre sorprendente Kirin Kiki è l’anziana che, nel suo modesto appartamento e unicamente con la propria pensione, vive un’esistenza incurante delle imposizioni morali e sociali. Nel minimalismo della sua esistenza c’è la coppia formata da un operaio edile e l’impiegata di una lavanderia, la studentessa che lavora nel locale a luci rosse, un ragazzino trovato abbandonato in un’auto. Un insieme singolare, poiché privo di qualsiasi legame di sangue; infine ci sarà la bimba raccolta per strada, forse abbandonata dai genitori, alla quale saranno inculcati i principi dello «shoplifter» – il taccheggiatore responsabile della sopravvivenza famigliare. Una vita serena, fuori dai luoghi comuni imposti dalla società: destinata a scomporsi, quando le leggi di quest’ultima verranno ad oscurare il bagliore effimero dei fuochi artificiali nel cielo di Tokyo.
In un Festival dominato dall’Asia, guardare oltre la Palma significa sfidare i compromessi. Non è sfuggita alle regole questa giuria dalle decisioni dignitose, su una selezione in ripresa rispetto a quella dell’annata precedente. Poche le scelte imperdonabili: come quell’immaturo Les filles du soleil di Eva Husson, per il quale l’ansia della partecipazione femminile ha annebbiato l’esigenza di un linguaggio all’altezza. Si è parlato addirittura di una Palma a Nadine Labaki, per il generoso e sopra le righe Capharnaüm: ma ci si è limitati a un Premio della Giuria. Per una Palma ingombrante si è poi pensato d’inventarla: quella destinata al Livre d’image di Godard, definita speciale per «ricompensare il lavoro di una vita, l’ambizione di ridefinire cosa fosse il cinema». Tutto vero, ma senza il coraggio di concedere quella vera, di palma.
Spike Lee è risorto: il suo BlacKKKlansman introduce con divertente lucidità neri ed ebrei all’interno della stupidità razzista del Ku Klux Klan di Colorado Springs. Per non arrendersi nemmeno nell’anticamera delle stanze di Trump. Il suo Grand Prix rappresenta il meritato argento di Cannes 2018. L’Italia si aspettava di più del premio all’Interpretazione Maschile a Marcello Fonte per Dogman di Matteo Garrone; e del Premio alla Sceneggiatura per l’Alice Rohrwacher di Lazzaro Felice. In uscita sugli schermi italiani, ne riparleremo a breve.
L’Interpretazione Femminile è andata alla sorprendente Samal Yeslyamova di Ayka, firmato dal kazako Sergey Dvortsevoy. Una settimana fa avevamo parlato di tre pellicole: Cold War del polacco Pawlikowski, 3 Faces del libanese Jafar Panahi e Uomini e donne di fiumi e laghi del cinese Jia Zhang-ke. Le prime due hanno conquistato rispettivamente il premio per la Migliore Regia e quello per la Sceneggiatura; il che ci rassicura sulla nostra lungimiranza.
Ma non rassicura completamente invece l’assenza del terzo film dal palmarès, che ci induce a considerarla una delle sviste più clamorose di Cate Blanchett e dei nostri eroi.
Di svista ve n’è poi un’altra, assolutamente incomprensibile. La collocazione degli indimenticabili, ma a tratti impegnativi 188 minuti di The Wild Pear Tree (Il pero selvaggio) nell’ultimissima proiezione di una manifestazione gigantesca che riduce al lumicino il buon senso dei presenti. Assieme, forse, alla relativa ignoranza da parte della giuria. E se fosse stato proprio il film di Nuri Bilge Ceylan il capolavoro assoluto di Cannes 2018?