Concorso

«Azione» offre ai suoi lettori alcuni biglietti per il concerto din giovedì 12 marzo 2020 (LAC, 20.30) diretto da Maxime Pascal che vedrà in scena, insieme all’OSI, la violinista Patricia Kopatchinskaja. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi.
Buona fortuna!


A piedi nudi sul palco

La violinista Patricia Kopatchinskaja si esibirà al LAC di Lugano – «Azione» mette in palio alcuni biglietti
/ 02.03.2020
di Enrico Parola

«Non voglio diventare una farisea; piuttosto, meglio essere considerata un’eretica, ma desidero rimanere una studentessa per tutta la vita».

È forse questa la definizione più icastica che Patricia Kopatchinskaja abbia dato di sé: la violinista moldava vi racchiude il senso del suo fare musica e soprattutto lo scopo della sua inesausta ricerca interpretativa. Un percorso in cui rientra ciò che può sembrare un vezzo e che proprio per la sua estrosa originalità rischia di divenire l’elemento per il quale viene riconosciuta e forse verrà ricordata: si esibisce sempre scalza. Entra sul palco con una sorta di piccola stuoia, la stende, si mette a piedi nudi e poi imbraccia il violino. Attorno a questo vezzo non pochi hanno ipotizzato spiegazioni più o meno suggestive: ad esempio la sua volontà di percepire più nitidamente le vibrazioni del palco, come se dovessero trasmettersi nel suo corpo facendolo vibrare all’unisono.

La verità è solo apparentemente più prosaica: «Per me suonare davanti al pubblico è come invitare degli amici a casa e cucinare loro una torta; e siccome in cucina sto sempre scalza, lo faccio anche sul palco». Il paragone viene poi esplicitato: «Odio i concerti che danno l’impressione di una torta esteticamente ineccepibile, confezionata nel modo più accurato, ma insipida; io non voglio portare sul palco un dolce fatto e finito, ma gli ingredienti; suonare è cucinare davanti al pubblico con quegli ingredienti, perché l’esecuzione dal vivo deve dare l’impressione che quel brano stia nascendo in quel momento. Per questo odio le interpretazioni scontate, banali; chi le cerca che bisogno ha di uscire di casa? Sta sul divano e ascolta per l’ennesima volta un disco. Si va in teatro per scoprire qualcosa di nuovo, per lasciarsi sorprendere. Ovvio, poi si può essere d’accordo o no, convinti o no, entusiasti o disgustati, ma il bello del concerto è prendersi questo rischio».

Kopatchinskaja ama il rischio, e non poco: le sue interpretazioni sono tutto fuorché convenzionali, con lei non c’è mai la possibilità del dejà-vu; non per ricerca esasp   erata di eccentricità, di originalità a tutti i costi, ma per amore a quello che lei intuisce come la verità di una certa musica. Che possa lasciar spiazzati, come a Lugano – si era ancora al Palazzo dei Congressi – era successo col Concerto di Beethoven, o che possa entusiasmare come – quella volta si era già al LAC – con Ciajkovskij.

Ora la virtuosa moldava torna con l’Orchestra della Svizzera Italiana (che Maxime Pascal, trentaquattrenne e lanciatissimo direttore transalpino guida anche in un dittico di Debussy dall’irresistibile fascino timbrico e coloristico, il Prélude à l’après-midi d’un faune e La mer), per affrontare uno dei concerti più difficili tecnicamente, ma allo stesso tempo più soggioganti per lirismo romantico e passione divorante che sprigionano dalla prima all’ultima nota, quello di Sibelius.

Per lei il limite tecnico non esiste, come a Lugano aveva dimostrato con un travolgente concerto di Schönberg, accompagnata da Petrenko e la Bayerisches Orchester; «comunque, anche se dovessi commettere errori, non li rimpiangerei: bisogna rischiare di sbagliare se si vuole andare al massimo; svolgere il compitino in tutta sicurezza equivale a confezionare la torta insipida di cui parlavo. Per me la ricerca interpretativa è come un salto dal ventesimo piano; atterro male e mi sento tutta rotta quando il pubblico non capisce le mie scelte». Quando invece le comprende scatta l’ovazione, e quel salto prende le fattezze di un doppio carpiato con atterraggio perfetto.

L’idiosincrasia per l’accademia e le prassi scontate sono parte del suo dna artistico tanto quanto la musica: «Entrambi i miei genitori sono musicisti, ma nonostante abbiano avuto una formazione classica si sono specializzati nel folk e non li ho mai visti leggere le note su uno spartito. Mia mamma ha iniziato a usare il pentagramma in casa per insegnare a me, quando avevo sei anni; lei andava a orecchio, io, almeno all’inizio, per seguirla avevo bisogno di leggere la melodia da suonare. Mi ha sempre affascinato questo andare a orecchio perché penso che la ragione sia nemica dell’istinto e per far musica c’è bisogno sì di ragione, ma anche e tanto di istinto: la musica è il modo che l’uomo ha trovato per esprimere quelle cose che non riusciva a spiegare a parole. Per questo un concerto non può essere un monumento antico da adorare – non sono una farisea – ma una novità che mi infiamma l’anima».