«Non voglio diventare una farisea; piuttosto, meglio essere considerata un’eretica, ma desidero rimanere una studentessa per tutta la vita».
È forse questa la definizione più icastica che Patricia Kopatchinskaja abbia dato di sé: la violinista moldava vi racchiude il senso del suo fare musica e soprattutto lo scopo della sua inesausta ricerca interpretativa. Un percorso in cui rientra ciò che può sembrare un vezzo e che proprio per la sua estrosa originalità rischia di divenire l’elemento per il quale viene riconosciuta e forse verrà ricordata: si esibisce sempre scalza. Entra sul palco con una sorta di piccola stuoia, la stende, si mette a piedi nudi e poi imbraccia il violino. Attorno a questo vezzo non pochi hanno ipotizzato spiegazioni più o meno suggestive: ad esempio la sua volontà di percepire più nitidamente le vibrazioni del palco, come se dovessero trasmettersi nel suo corpo facendolo vibrare all’unisono.
La verità è solo apparentemente più prosaica: «Per me suonare davanti al pubblico è come invitare degli amici a casa e cucinare loro una torta; e siccome in cucina sto sempre scalza, lo faccio anche sul palco». Il paragone viene poi esplicitato: «Odio i concerti che danno l’impressione di una torta esteticamente ineccepibile, confezionata nel modo più accurato, ma insipida; io non voglio portare sul palco un dolce fatto e finito, ma gli ingredienti; suonare è cucinare davanti al pubblico con quegli ingredienti, perché l’esecuzione dal vivo deve dare l’impressione che quel brano stia nascendo in quel momento. Per questo odio le interpretazioni scontate, banali; chi le cerca che bisogno ha di uscire di casa? Sta sul divano e ascolta per l’ennesima volta un disco. Si va in teatro per scoprire qualcosa di nuovo, per lasciarsi sorprendere. Ovvio, poi si può essere d’accordo o no, convinti o no, entusiasti o disgustati, ma il bello del concerto è prendersi questo rischio».
Kopatchinskaja ama il rischio, e non poco: le sue interpretazioni sono tutto fuorché convenzionali, con lei non c’è mai la possibilità del dejà-vu; non per ricerca esasp erata di eccentricità, di originalità a tutti i costi, ma per amore a quello che lei intuisce come la verità di una certa musica. Che possa lasciar spiazzati, come a Lugano – si era ancora al Palazzo dei Congressi – era successo col Concerto di Beethoven, o che possa entusiasmare come – quella volta si era già al LAC – con Ciajkovskij.
Ora la virtuosa moldava torna con l’Orchestra della Svizzera Italiana (che Maxime Pascal, trentaquattrenne e lanciatissimo direttore transalpino guida anche in un dittico di Debussy dall’irresistibile fascino timbrico e coloristico, il Prélude à l’après-midi d’un faune e La mer), per affrontare uno dei concerti più difficili tecnicamente, ma allo stesso tempo più soggioganti per lirismo romantico e passione divorante che sprigionano dalla prima all’ultima nota, quello di Sibelius.
Per lei il limite tecnico non esiste, come a Lugano aveva dimostrato con un travolgente concerto di Schönberg, accompagnata da Petrenko e la Bayerisches Orchester; «comunque, anche se dovessi commettere errori, non li rimpiangerei: bisogna rischiare di sbagliare se si vuole andare al massimo; svolgere il compitino in tutta sicurezza equivale a confezionare la torta insipida di cui parlavo. Per me la ricerca interpretativa è come un salto dal ventesimo piano; atterro male e mi sento tutta rotta quando il pubblico non capisce le mie scelte». Quando invece le comprende scatta l’ovazione, e quel salto prende le fattezze di un doppio carpiato con atterraggio perfetto.
L’idiosincrasia per l’accademia e le prassi scontate sono parte del suo dna artistico tanto quanto la musica: «Entrambi i miei genitori sono musicisti, ma nonostante abbiano avuto una formazione classica si sono specializzati nel folk e non li ho mai visti leggere le note su uno spartito. Mia mamma ha iniziato a usare il pentagramma in casa per insegnare a me, quando avevo sei anni; lei andava a orecchio, io, almeno all’inizio, per seguirla avevo bisogno di leggere la melodia da suonare. Mi ha sempre affascinato questo andare a orecchio perché penso che la ragione sia nemica dell’istinto e per far musica c’è bisogno sì di ragione, ma anche e tanto di istinto: la musica è il modo che l’uomo ha trovato per esprimere quelle cose che non riusciva a spiegare a parole. Per questo un concerto non può essere un monumento antico da adorare – non sono una farisea – ma una novità che mi infiamma l’anima».