A grandi aspettative grandi risposte

Quest’anno la kermesse veneziana è svolta all’insegna della qualità: la scelta di includere piattaforme come Netflix risulta vincente
/ 10.09.2018
di Nicola Falcinella

Film molto lunghi, spesso di durata eccessiva, sovente ambientati in epoche passate, ma di livello medio alto. La 75esima Mostra del cinema di Venezia che ha consegnato il Leone d’oro sabato sera si presentava con un carico elevato di aspettative, che è riuscita nell’insieme a mantenere. Se si guarda alle aree geografiche, poco presente l’Asia, con il solo Zan del giapponese Shin’ya Tsukamoto in concorso, passato negli ultimi giorni a giornale già in stampa.

Presenti gli Stati Uniti e soprattutto il Messico, con Roma di Alfonso Cuaron, forse l’unico a mettere d’accordo tutti. Una storia familiare dal sapore autobiografico tra il 1970 e il 1971, nel quartiere bene di Città del Messico che dà il titolo al film. La signora Sofia ha quattro figli, un marito sempre assente e due domestiche indigene che amano andare al cinema. Di queste, Cleo, abbandonata dal fidanzato quando resta incinta, vive emozioni simili alla padrona, pur nella differenza sociale e di ruolo. Un bianco e nero elegantissimo, un utilizzo portentoso della profondità di campo, almeno due sequenze (al cinema e il salvataggio in mare) memorabili, in un’opera commovente sulla quotidianità, oltre a protagoniste che lasciano il segno.

Le donne dominano, e si scontrano ferocemente, in La favorita di Yorgos Lanthimos, ambientato nell’Inghilterra di inizio ’700, alla corte della regina Anna. Sarah, consigliera della sovrana e moglie del comandante dell’esercito, assume come domestica Abigail, cugina caduta in disgrazia che vuole riscattarsi e farà di tutto per ingraziarsi il trono. Emma Stone, Olivia Colman e Rachel Weisz incrociano spade e fioretti in una gara di bravura, al servizio del film più equilibrato e meno programmaticamente irritante del regista greco.

Ancora dal Messico, ambientato in un ranch poco distante dalla capitale, arriva Nuestro tiempo di Carlos Reygadas, un anomalo triangolo amoroso di tre ore con la durata giustificata dall’atmosfera e dallo sviluppo delle tematiche. Come si cambia durante un matrimonio? Come rivitalizzare la passione? Cos’è il tradimento? L’amore è manipolazione? Domande che il regista messicano pone a ragazzini che giocano liberi all’aperto tra cavalli da domare e tori che corrono e si scornano, sotto un cielo che sembra dipinto e tempeste che scuotono anche gli animi.

Sei episodi costituiscono The Ballad Of Buster Scruggs di Ethan e Joel Coen che tornano al western ironico e crepuscolare, dove non ci sono certezze e non si salva quasi nessuno: non tutti i segmenti sono allo stesso livello, ma almeno quattro sono scoppiettanti e affilati. Con il duro West si confronta anche Jacques Audiard, Palma d’oro a Cannes per Dheepan, in The Sisters Brothers, e ne esce bene. Due fratelli assassini sulle tracce di un cercatore d’oro, tra paure e avidità e un ribaltamento di ruoli tra i due. L’altro francese in gara, Olivier Assayas rivela una vena ironica e di commedia molto apprezzabile in Doubles vies – Non-Fiction, che riflette con leggerezza e profondità sui sentimenti e sul ruolo della cultura e degli scrittori, anche alla luce dell’imporsi di nuove tecnologie negli ultimi decenni.

In 22 July l’inglese Paul Greengrass ricostruisce le stragi di Oslo compiute il 22 luglio 2011 dal terrorista Anders Behring Breivik, che uccise 77 persone come gesto di lotta al multiculturalismo e all’immigrazione e per la difesa dell’«identità europea» e di uno «stile di vita». Il regista di Captain Phillips e dei Bourne realizza un’opera tesa e incalzante, che ricostruisce i fatti dalla vigilia fino alla sentenza finale, contrapponendo la fredda follia dell’attentatore al coraggio del giovane Viljar, che testimoniò nonostante le gravi ferite riportate. Un film molto attuale, su ciò che a livello più o meno sotterraneo agita l’Europa, e che trova un’inquietante conferma nel documentario American Dharma di Errol Morris. Un’intervista a Steve Bannon, ex consigliere di Donald Trump e teorico della lotta alle élite e alla globalizzazione, che usa molti termini e concetti impiegati da Breivik nelle sue farneticanti tesi.