A due passi dalla Palma d’oro

Vi proponiamo le schede di tre delle migliori opere viste durante il Festival di Cannes
/ 21.05.2018
di Fabio Fumagalli

Mancano un paio di giorni al termine di Cannes 2018. Ma, come succede da quando i festival cinematografici sono stati inventati, sono spesso le ultime cartucce a risultare le più letali. Nel prossimo numero di «Azione», il tempo delle conclusioni su un’edizione – questo perlomeno lo possiamo già anticipare – che, se non ha scoperto il capolavoro assoluto (Nuri Bilge Ceylan?), nella sua volontà di rinnovamento ha comunque riproposto una selezione difficilmente eguagliabile altrove.

***(*) Cold War (Zimna Wojna), di Pawel Pawlikowski, con Tomasz Kot, Joanna Kulig, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar (Polonia 2018)

Non era facile ritornare dietro alla cinepresa dopo un film come Ida. Non tanto per ripetere la prodezza di quell’Oscar del 2015, ma perché Ida pareva irripetibile. Dalla novizia in libertà provvisoria dal convento, quel road movie della memoria ambientato negli incerti Anni Sessanta, e infine lo sfociare in un poetico, tardivo processo di formazione esistenziale.

Eppure, Cold War quasi ci riesce. Grazie alla medesima arte della composizione, al rigore mai artificioso del recuperato formato 4:3, al bianco e nero sfumato del naturalismo di Lukasz Szal che ricorda quello del maestro Koudelka. Una raffinatezza sontuosa nei chiaroscuri: che mai scade, proprio come accadeva in Ida, nella decorazione vanesia. Pawlikowski ha poi l’intuizione, così urgente nel dilagare attuale delle immagini, di limitarsi a 84 minuti: e questo grazie anche al suo ricorso nel montaggio a un’arte memorabile dell’elisse che gli permette di evitare il superfluo; riesce così a ricostruire la storia d’amore tra il musicista e ricercatore del folclore nazionale Wiktor e la sua bella, quanto un poco sconcertante allieva Zula. Una Joanna Kulig, alla quale molti già predicono una Palma per l’interpretazione. 

Dieci anni di relazione: dalla campagna polacca a Berlino, passando per la Jugoslavia e Parigi, per poi ritrovarsi in una Polonia nuova, ma non certo accogliente. Amarsi e abbandonarsi, cercarsi e sfuggirsi: una migrazione dei sentimenti che finisce per coincidere con un rapporto di amore e odio con l’ambiente e in senso lato le proprie origini. Una splendida e originale parte iniziale, con la formazione dei cori di musica popolare sulla quale viene a stagliarsi progressivamente l’ombra di Stalin. Poi, una seconda, più convenzionale nei suoi alti e bassi sentimentali, ma con la Parigi dei jazz club. Qui, Pawlikowski ritrova una comunione espressiva nella quale, come già in Ida, riesce meravigliosamente a perdersi, per poi tornare a manifestarsi. Prima di un finale nel quale gli incerti del melodramma sembrano dolorosamente, ma anche serenamente, stemperarsi.

*** 3 Faces, di Jafar Panahi, con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Rezaei (Iran 2018)

L’avvio dell’ultimo film girato, malgrado i divieti, dal grande cineasta iraniano lo si percepisce subito come un formidabile pugno nello stomaco. Ripresa in primissimo piano mentre si accosta alla cinepresa, un’adolescente invia alla celebre attrice Behnaz Jafari un appello disperato via cellulare: poiché questa non risponde, l’adolescente s’impiccherà con il cappio già predisposto all’uscita della grotta. Sconvolta, l’attrice convince l’amico Jafar Panahi ad accompagnarla nel segreto di una automobile. Eccoci quindi ritrovati nel medesimo spazio dello splendido Taxi Teheran, il capolavoro precedente di Panahi: il che spiega solo in parte come il cineasta (cui hanno impedito di recarsi a Cannes) riesca a eludere le imposizioni e i divieti (sei anni di confinamento a domicilio, venti di divieto di girare). 

Si tratterà di un suicidio o di una fake news, di una realtà, oppure di un espediente d’invenzione tecnologica, cinematografica? Sapendo come in Iran l’arte cinematografica sia altamente rispettata, ma egualmente osteggiata perché perturbatrice dell’ordine sociale… Ai due non rimarrà che avviarsi verso Marzieh, uno di quei villaggi sperduti nelle montagne tanto cari a Abbas Kiarostami, cineasta da sempre innamorato delle dimensioni dell’anima. E sebbene quello spazio non possa che richiamare alla mente il sottofondo di tanti capolavori dell’autore de E la vita continua o Il sapore della ciliegia, Panahi abbraccia subito un altro tono, splendidamente rigoroso nelle immagini, certamente non noncurante nei confronti di una possibile tragedia latente. Ma assai più disinvolto, a tratti quasi umoristico, deliziosamente libero. Siamo all’omaggio: ma a partire da quel momento sarà il tono di Panahi ad imporsi, mettendo in luce il contrasto tra la grande popolarità dell’attrice Benaziah Jafari tra la popolazione (dalla semplicità arcaica) e una permanente diffidenza. Che il regista, grazie all’insolente ironia nell’osservazione della società che lo circonda, manipola a meraviglia.

*** Les Eternels (Uomini e donne di fiumi e laghi), di Jia Zhang-ke, con Zhao Tao, Liao Fan (Cina, 2018)

Jia Zhang-ke continua a parlare della Cina, e di come si stiano trasformando la società, l’economia e di conseguenza la moralità dei propri abitanti. Di una migrazione, intima e più concreta nello spazio, come vana soluzione a una perenne situazione di sottomissione dell’individuo. E, come sempre, il fascino di questa sua visione nasce dal connubio fra il documento più reale e la finzione a tratti più crudele. Così come in questa storia, che inizia nella zona mineraria di Datong di recente impoverita, e dove Qiao, la donna del capo gang locale, tenterà d’imbrigliare le carte di una condizione destinata ad essere eterna. Un arduo cammino, che per Qiao inizierà male: per proteggere il suo capo banda Bin durante una rissa, sparerà a vuoto sugli assalitori. Ma in Cina non si va per il sottile: Qiao prende cinque di anni di prigione. Al suo ritorno nulla sarà come prima, anche perché il film si sarà protratto sull’arco di quasi 20 anni. Zhangke ha recuperato materiale scartato in Piaceri sconosciuti, Still Life, fino a Al di là delle montagne, per dimostrare come in un Paese di furibonda espansione l’ambiente, ma anche gli individui mutino. Un mix di noir e fantascienza, commedia musicale e documentario illuminato, oltre che dall’arte del cineasta, dalla presenza di quella che è la sua donna dal 2000 di Platform: la magnetica e inconfondibile Zhao Tao.