Non si sa ancora, mentre andiamo in stampa, se il Pardo d’oro avrà preso la strada della Cina o degli Stati Uniti, oppure se la giuria presieduta da Olivier Assayas avrà compiuto scelte più sorprendenti.
La 70esima edizione di Locarno Festival, rinnovata nel nome, in alcuni spazi e nell’aspetto, ha confermato la vitalità della manifestazione e del suo spirito libero e curioso. Un festival dove ci sono i controlli di sicurezza ma ci si muove ancora con facilità, ci sono le star e i grandi nomi ma non c’è l’inseguimento alle celebrità. Anche se il tappeto rosso da dietro la Sopracenerina alla Piazza Grande calamita curiosi come non molti anni fa sarebbe parso impossibile, e si assiste a un presenza più continua e visibile dei politici e degli sponsor e un glamour di contorno che non apparteneva alla sobrietà del festival. Per ora le due anime, quella radicata e cinefila e quella modaiola, sembrano coesistere, magari con beneficio di entrambe, e la programmazione resta solidamente attenta al valore delle opere e dei loro autori, come anche al dialogo tra chi il cinema lo fa e chi ne fruisce da spettatore.
Così un cineasta di culto ma poco presenzialista come Todd Haynes (Lontano dal paradiso, Carol) si è raccontato al pubblico e attori come Nastassja Kinski, Adrien Brody o Vanessa Paradis hanno portato la loro presenza carismatica. E i festivalieri hanno fatto la fila fuori dal ristrutturato GranRex per ammirare, seduti nelle poltrone rosse, i film della meravigliosa retrospettiva Jacques Tourneur, cineasta franco-americano che ha abbracciato quasi tutti i generi e che aspettava da anni di essere riportato all’attenzione generale per l’insieme dell’opera e non solo dei capolavori più noti come Il bacio della pantera o L’uomo leopardo.
Tra i tanti riconoscimenti, il Premio Cinema Ticino è stato consegnato, nella serata delle celebrazioni del 70esimo, a Esmé Sciaroni, truccatrice che debuttò sui set di Innocenza e Bankomatt di Villi Hermann e ha lavorato in decine di film e più volte con Silvio Soldini, Gianni Amelio e Paolo Virzì, tanto che in suo onore è stato riproposto La pazza gioia.
Come sempre il concorso ha fatto discutere, magari non tutte le opere erano all’altezza, ma i film buoni e le scoperte non sono mancati. Tra le parziali delusioni l’italiano Gli asteroidi di Germano Maccioni, che vorrebbe essere un noir surreale che ritrae l’Emilia padana, ma fatica a decollare e stare in equilibrio tra i diversi livelli. Al suo posto sarebbe stato meglio l’altro esordiente, Andrea Magnani, che ha portato nei Cineasti del presente il sorprendente Easy, un viaggio dal Friuli all’Ucraina per trasportare una bara che cambia la vita del depresso e passivo protagonista, catapultato in una serie di imprevisti dal fratello cinico. Un film generoso e divertente con un bravissimo Nicola Nocella.
Nella competizione, abbastanza eterogenea come è per sua natura, e piuttosto varia per essere stimolante e fonte di discussioni, spiccano gli americani Lucky di John Carroll Lynch e Did You Wonder Who Fired the Gun? di Travis Wilkerson e il cinese Mrs. Fang di Wang Bing. L’attore che era stato Norm in Fargo dei Coen esordisce da regista facendo rivivere il meglio del cinema indipendente americano, che sembrava boccheggiante e imbolsito. Il protagonista Lucky è un novantenne indipendente e ironico, interpretato da uno straordinario Harry Dean Stanton sempre con la sigaretta in mano, che ha ancora qualcosa da dire e, in un paesino ai limiti del deserto, resta aperto alla vita fino in fondo. Tra i personaggi di contorno c’è pure il mitico David Lynch, avventore di un bar. In Did You Wonder Who Fired the Gun? Wilkerson compie un’indagine sincera sul razzismo, mettendosi in gioco con un approccio radicale che non fa concessioni a nessuno. Cercando di ricostruire perché il bisnonno avesse ucciso un uomo di colore nel 1946 e l’avesse fatta franca, il regista rivela il cuore nero dell’America bianca, un universo ancora nazionalista e ipocrita che sostiene la superiorità dei bianchi. Un’immersione sulla scorta del cinema e della letteratura, con l’avvocato Atticus Finch de Il buio oltre la siepe e l’altro romanzo di Harper Lee, Va’, metti una sentinella, e della musica (Strange fruit di Billie Holiday e il William Moore di Phil Ochs).
Il cinese, uno dei documentaristi più affermati di oggi, filma la signora Fang malata terminale di Alzheimer negli ultimi giorni di vita. Una donna semplice di un piccolo villaggio di pescatori. Non si può muovere, né esprimere, è assistita dai parenti a turno e filmata in lunghe inquadrature rispettose da Wang Bing, che sa ritrarsi e distanziarsi al momento opportuno. Se alcuni tempi lunghi, e il rumore eccessivo intorno alla malata e i discorsi intorno alla sepoltura, possono sembrare estenuanti, il sentimento di compassione verso gli ultimi istanti della donna sa far vedere la morte in un’ottica che forse per gli occidentali è poco familiare.
Tra gli altri bei lavori la commedia nera Madame Hyde di Serge Bozon, con Isabelle Huppert, insegnante di fisica dalla doppia vita che cambia l’esistenza a uno studente svogliato. Molto interessante e curioso il brasiliano As boas maneiras di Marco Dutra e Juliana Rojas, mentre l’altro cinese Dragonfly Eyes dell’artista Xu Bing ha più un valore teorico e concettuale, con una storia d’amore realizzata montando le immagini raccolte dalle videocamere di sorveglianza.