La memoria come «leitmotiv»

Still da Strong Island, film di Yance Ford. (Youtube)
Still da Strong Island, film di Yance Ford. (Youtube)

Il tema della memoria, collettiva o personale, rimossa e da ricomporre permea svariati film tra i più validi del Locarno Festival e collocati nelle le sezioni. È il caso di Did You Wonder Who Fired the Gun? di Travis Wilkerson che fa il paio con Strong Island di Yance Ford, altra indagine su un omicidio razziale rimasto senza giustizia (partendo dalla propria famiglia, stavolta dalla parte delle vittime) e su come tutta la sua esistenza sia stata condizionata dall’uccisione di un fratello.

Per la prima volta in oltre quarantanni di carriera, il ticinese Villi Hermann è partito da ricordi personali per realizzare Choisir à vingt ans, presentato Fuori concorso. Il cineasta del Malcantone era un ventenne studente d’arte a Parigi nel 1961, mentre era in corso la guerra d’Algeria e alcuni suoi coetanei disertavano per non indossare la divisa e non andare a reprimere la rivolta anticolonialista del popolo algerino. Buona parte di essi trovò ospitalità in Svizzera, qualcuno in Italia e in Germania, come il futuro regista Jean-Marie Straub. Dopo la fine del conflitto, Hermann trascorse 10 mesi nel Paese africano come volontario per aiutare la ricostruzione. Tra lettere ai genitori e alla fidanzata di allora e ricordi, la sua vicenda si intreccia con la scelta di alcuni giovani francesi di non combattere per una causa che non condividevano. La prima parte è più incalzante, ritmata dalle interviste, mentre nell’Algeria di oggi il regista entra con la videocamera in punta di piedi, non pretendendo di raccontarne i cambiamenti. Mostra agli abitanti di Sidi Larbi, poco distante dal confine con il Marocco, le fotografie di allora, cerca le persone con discrezione, lascia che affiorino i ricordi di chi era bambino e ragazzo e frequentava la scuola dei volontari internazionali. Di Hermann, da sempre interessato al rapporto tra Storia e attualità, è stato anche proiettato in versione restaurata San Gottardo, Pardo nel 1977, tra i film che hanno fatto la storia del Festival e rivelato nuovi autori.

Il regista romeno Radu Jude torna con Tara moarta – The Dead Nation, presentato nella sezione Signs of Life, sui temi già affrontati in Scarred Hearts che nel 2016 corse per il Pardo d’oro. Il film di finzione era ispirato dalle memorie del poeta ebreo Manu Blecher e dalla sua convalescenza in ospedale dal 1937 in poi, confrontato con un antisemitismo crescente. Stavolta ci troviamo quasi davanti a un saggio, che utilizza le immagini d’epoca dello Studio Splendid e sovrappone brani del diario del medico di Bucarest Emil Dorian e radiogiornali partendo sempre dal 1937. La paura raccontata quasi giorno per giorno: dagli ebrei cacciati dagli ospedali ai i licenziamenti, poi le uccisioni, i pogrom, le deportazioni, fino al 1946 e a una nuova paura. Un potente documento sulla storia della Romania partendo da un punto di vista personale.

Va in una casa di riposo di Istanbul la regista americana d’origine turca Shevaun Mizrahi per Distant Constellation, incluso nei Cineasti del presente. All’esterno c’è un grande cantiere, dentro le persone appassiscono. Tra vaneggiamenti e ripetizioni, una situazione surreale nella quale a sprazzi ritornano memorie, come la testimonianza di un’anziana armena la cui famiglia dovette assumere nomi islamici per sopravvivere al genocidio del 1915. / NF


A caccia della storia interiore

Locarno Festival - Nell’anno dell’anniversario tondo l’importante kermesse si è regalata spazi nuovi, nonché un nome che dovrebbe accrescerne ancor più l’attrattività
/ 14.08.2017
di Nicola Falcinella

Non si sa ancora, mentre andiamo in stampa, se il Pardo d’oro avrà preso la strada della Cina o degli Stati Uniti, oppure se la giuria presieduta da Olivier Assayas avrà compiuto scelte più sorprendenti.

La 70esima edizione di Locarno Festival, rinnovata nel nome, in alcuni spazi e nell’aspetto, ha confermato la vitalità della manifestazione e del suo spirito libero e curioso. Un festival dove ci sono i controlli di sicurezza ma ci si muove ancora con facilità, ci sono le star e i grandi nomi ma non c’è l’inseguimento alle celebrità. Anche se il tappeto rosso da dietro la Sopracenerina alla Piazza Grande calamita curiosi come non molti anni fa sarebbe parso impossibile, e si assiste a un presenza più continua e visibile dei politici e degli sponsor e un glamour di contorno che non apparteneva alla sobrietà del festival. Per ora le due anime, quella radicata e cinefila e quella modaiola, sembrano coesistere, magari con beneficio di entrambe, e la programmazione resta solidamente attenta al valore delle opere e dei loro autori, come anche al dialogo tra chi il cinema lo fa e chi ne fruisce da spettatore.

Così un cineasta di culto ma poco presenzialista come Todd Haynes (Lontano dal paradiso, Carol) si è raccontato al pubblico e attori come Nastassja Kinski, Adrien Brody o Vanessa Paradis hanno portato la loro presenza carismatica. E i festivalieri hanno fatto la fila fuori dal ristrutturato GranRex per ammirare, seduti nelle poltrone rosse, i film della meravigliosa retrospettiva Jacques Tourneur, cineasta franco-americano che ha abbracciato quasi tutti i generi e che aspettava da anni di essere riportato all’attenzione generale per l’insieme dell’opera e non solo dei capolavori più noti come Il bacio della pantera o L’uomo leopardo.

Tra i tanti riconoscimenti, il Premio Cinema Ticino è stato consegnato, nella serata delle celebrazioni del 70esimo, a Esmé Sciaroni, truccatrice che debuttò sui set di Innocenza e Bankomatt di Villi Hermann e ha lavorato in decine di film e più volte con Silvio Soldini, Gianni Amelio e Paolo Virzì, tanto che in suo onore è stato riproposto La pazza gioia.

Come sempre il concorso ha fatto discutere, magari non tutte le opere erano all’altezza, ma i film buoni e le scoperte non sono mancati. Tra le parziali delusioni l’italiano Gli asteroidi di Germano Maccioni, che vorrebbe essere un noir surreale che ritrae l’Emilia padana, ma fatica a decollare e stare in equilibrio tra i diversi livelli. Al suo posto sarebbe stato meglio l’altro esordiente, Andrea Magnani, che ha portato nei Cineasti del presente il sorprendente Easy, un viaggio dal Friuli all’Ucraina per trasportare una bara che cambia la vita del depresso e passivo protagonista, catapultato in una serie di imprevisti dal fratello cinico. Un film generoso e divertente con un bravissimo Nicola Nocella.

Nella competizione, abbastanza eterogenea come è per sua natura, e piuttosto varia per essere stimolante e fonte di discussioni, spiccano gli americani Lucky di John Carroll Lynch e Did You Wonder Who Fired the Gun? di Travis Wilkerson e il cinese Mrs. Fang di Wang Bing. L’attore che era stato Norm in Fargo dei Coen esordisce da regista facendo rivivere il meglio del cinema indipendente americano, che sembrava boccheggiante e imbolsito. Il protagonista Lucky è un novantenne indipendente e ironico, interpretato da uno straordinario Harry Dean Stanton sempre con la sigaretta in mano, che ha ancora qualcosa da dire e, in un paesino ai limiti del deserto, resta aperto alla vita fino in fondo. Tra i personaggi di contorno c’è pure il mitico David Lynch, avventore di un bar. In Did You Wonder Who Fired the Gun? Wilkerson compie un’indagine sincera sul razzismo, mettendosi in gioco con un approccio radicale che non fa concessioni a nessuno. Cercando di ricostruire perché il bisnonno avesse ucciso un uomo di colore nel 1946 e l’avesse fatta franca, il regista rivela il cuore nero dell’America bianca, un universo ancora nazionalista e ipocrita che sostiene la superiorità dei bianchi. Un’immersione sulla scorta del cinema e della letteratura, con l’avvocato Atticus Finch de Il buio oltre la siepe e l’altro romanzo di Harper Lee, Va’, metti una sentinella, e della musica (Strange fruit di Billie Holiday e il William Moore di Phil Ochs).

Il cinese, uno dei documentaristi più affermati di oggi, filma la signora Fang malata terminale di Alzheimer negli ultimi giorni di vita. Una donna semplice di un piccolo villaggio di pescatori. Non si può muovere, né esprimere, è assistita dai parenti a turno e filmata in lunghe inquadrature rispettose da Wang Bing, che sa ritrarsi e distanziarsi al momento opportuno. Se alcuni tempi lunghi, e il rumore eccessivo intorno alla malata e i discorsi intorno alla sepoltura, possono sembrare estenuanti, il sentimento di compassione verso gli ultimi istanti della donna sa far vedere la morte in un’ottica che forse per gli occidentali è poco familiare.

Tra gli altri bei lavori la commedia nera Madame Hyde di Serge Bozon, con Isabelle Huppert, insegnante di fisica dalla doppia vita che cambia l’esistenza a uno studente svogliato. Molto interessante e curioso il brasiliano As boas maneiras di Marco Dutra e Juliana Rojas, mentre l’altro cinese Dragonfly Eyes dell’artista Xu Bing ha più un valore teorico e concettuale, con una storia d’amore realizzata montando le immagini raccolte dalle videocamere di sorveglianza.