L’allevamento delle pecore fu introdotto nel continente americano dai colonizzatori spagnoli nel XVI secolo; dapprima in Messico, poi diverse greggi furono condotte verso nord e verso sud. I Navajo, sulla base di un’antica profezia, attendevano l’arrivo di un animale simile ai caproni selvatici di montagna. Forse per questo, tra i nativi americani, furono i primi a cogliere queste opportunità: cibo disponibile vicino ai centri abitati e nuove possibilità di lavoro.
In particolare, la razza churro si adattò bene a quei territori. Queste pecore bianche e nere, con le zampe senza pelo, hanno una carne magra e nutriente. Con il loro vello pregiato si produce una lana lunga e resistente, utilizzata dai Navajo per splendidi tappeti, coperte per selle, vestiti.
Il territorio Navajo si estende per circa 65mila chilometri quadrati nel sud-ovest degli Stati Uniti: canyon drammatici, montagne aspre, foreste, laghi e deserti. Le sterminate pianure e gli altipiani dell’Arizona, dello Utah e del Nuovo Messico si rivelarono perfetti per la pastorizia.
I Navajo svilupparono rapidamente tecniche di allevamento nomadi simili a quelle europee, conducendo le greggi nei pascoli alti in estate, in pianura d’inverno. Ancora oggi le greggi pascolano liberamente lungo le strade, insieme a piccoli branchi di cavalli.
Nel 1863 le pecore possedute dai Navajo erano circa un milione ed erano diventate essenziali per la sussistenza nonché il fondamento stesso del loro modello di vita. Per questo il governo americano non esitò a colpire la pastorizia per indebolire i nativi. Nel 1863 il leggendario Kit Carson bruciò i campi di grano e avvelenò le pozze d’acqua, costringendo circa ottomila Navajo a camminare con le loro greggi per trecento miglia verso il New Mexico.
Lentamente i Navajo tornarono nella riserva dell’Arizona, riprendendo l’allevamento. Nel 1930 si contavano oltre mezzo milione di capi quando il governo avviò un «programma di riduzione», ufficialmente per preservare i terreni dallo sfruttamento intensivo. Il commissario del Bureau of Indian Affairs (BIA) John Collier ordinò di raggruppare le pecore dei Navajo nelle principali città, dove furono abbattute a colpi di fucile. In alcuni casi il governo pagò pochi dollari per gli animali e oltretutto questo denaro fu dato in mano agli uomini, nonostante le greggi fossero proprietà delle donne della tribù, in accordo con la tradizionale cultura matriarcale Navajo.
Al di là dell’aspetto economico, per i Navajo fu una profonda perdita materiale e spirituale. Ancora oggi devono richiedere un «permesso di pascolo» e il futuro della pastorizia è quanto mai incerto. La lingua Navajo è ancora largamente usata, per alcuni è l’unica lingua. E per lunghi anni ai nativi americani fu tolta la libertà di praticare le proprie tradizioni spirituali. Solo nel 1978 (American Indian Religious Freedom Act), fu riconosciuta loro la piena libertà di culto. Molte cerimonie però sono sopravvissute in segreto, perché i colonizzatori europei le consideravano solo superstizioni, quando invece erano ispirate a una filosofia di vita profondamente legata alla natura.
I Navajo vivono sospesi tra due mondi. Molti nativi hanno frequentato (non sempre per scelta) scuole cristiane, oggi sono laureati e vivono nei grandi centri abitati, come Flagstaff o Phoenix. Ma numerosi sono anche i Navajo che vivono negli hogan, le tradizionali dimore esagonali costruite con legno, terra, pietre, senza luce né acqua. Piccoli gruppi di hogan, con case mobili e una o due casette in legno, bastano per creare un villaggio.
Tuttavia negli ultimi anni un equilibrio antico è entrato in crisi. La siccità del 2018 ha lasciato ferite indelebili sulla vegetazione che molto lentamente cerca di riprendersi. Ci addentriamo nel Dinnebito Wash (un arroyo, cioè il letto in secca di un torrente stagionale) attraverso una prateria di fiori viola, primo timido segnale di rinascita; ma sotto la terra geme ancora, arida. Siamo qui per incontrare Marie, ottant’anni, pastora di pecore. Raggiungiamo il suo ranch ed entriamo nell’abitazione in mattoni, dove Marie ci racconta dell’ultima stagione caldissima e delle enormi difficoltà per i pastori in tutta l’Arizona: «Più s’invecchia, più gli animali intorno a noi diminuiscono. Forse anche questo è legato al clima. Prima la prateria dava tutto ciò di cui avevamo bisogno, poi sono sparite le sorgenti, che una volta erano numerose in questa zona. Infine è aumentata la temperatura, in inverno il terreno non ghiaccia più. L’anno scorso, durante la stagione calda, ho dovuto dare da mangiare alle pecore fieno e poco grano, a volte del sale».
Negli occhi di Marie leggo rassegnazione e tristezza per un intero ecosistema in sofferenza. L’equilibrio dell’uomo con la natura, inscritto da sempre nel paesaggio e nella cultura navajo, è solo un ricordo. Per questo oggi molti Navajo si stanno orientando verso un allevamento sostenibile, combinando saperi tradizionali e conoscenze scientifiche.
Il gregge di Marie, una quarantina di capi, resta intorno alla casa, più in là solo prateria per miglia e miglia fino al San Francisco Peak, la montagna sacra dei Navajo, ancora innevata. Marie si siede accanto alla porta di casa e inizia a filare.
Un’aspra riserva di allevatori
Reportage - La difficile resistenza delle donne pastore Navajo in Arizona, Utah e Nuovo Messico
/ 06.04.2020
di Valentina Musmeci, testo e foto
di Valentina Musmeci, testo e foto