«Arrivato in Oriente ho speso anni a studiare tutto quello che potevo per capire come la pensano. Adesso lo so. L’Oriente sconvolge lo straniero perché lui è sintonizzato su un modo di pensare per contrapposizioni: o mi piaci o no. Per l’orientale, i due sentimenti possono coesistere in un unico cervello». Così mi disse Luca Invernizzi Tettoni, fotografo italiano che ha vissuto per quasi quarant’anni tra Bangkok e Singapore con deviazioni in tutto il Sud-est asiatico. E concludeva: «Ho capito che è tutta una finzione. Tu puoi anche diventare come gli orientali, ma sono loro che non ti accetteranno mai».
Luca era un uomo di profonda cultura, di quei paesi parlava quasi tutte le lingue. È morto nel 2013 e mi mancano i nostri incontri sulla terrazza dell’Hotel Oriental di Bangkok, bevendo gin tonic e discutendo dell’Asia, dell’incontro e dello scontro tra culture diverse. «Il confine del mondo che m’interessa è la gente come noi» diceva, interpretando la parte dell’expat un po’ cinico che rifiuta il mito dell’assimilazione. La «gente come noi» erano quelli che si sono trasferiti all’estero per irrequietezza esistenziale, curiosità culturale, ricerca di un diverso stile di vita.
Quello che conta per definirsi expat è dove ci si stabilisce. Lo spiega bene Bob Shacochis, giornalista e scrittore americano: «Fermati là dove nulla è familiare, dove la luce è surreale, gli odori sono quelli di spezie sconosciute e s’avvertono vibrazioni aliene. Immergiti in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di te stesso».
La Thailandia è uno specchio perfetto di questo altrove: perché, per quanti sforzi facciamo, agli occhi dei thai resteremo sempre degli stranieri: farang. Il termine può essere spregiativo o amichevole, dipende dal contesto, ma è quasi sempre neutro. È la definizione di una diversità rispetto al khon thai, il popolo thai. Il farang è escluso dalla khwampenthai, la thailandesità, che accomuna phray e ammat, popolani e membri dell’élite, anche in piccole abitudini come il gusto per il som tam, l’insalata di papaya verde.
Una volta accettata la diversità, la difficoltà di capire e l’esclusione, il farang/expat non può far altro che prendere atto degli equivoci culturali. Cominciando dall’espressione più comune in Thailandia: «Mai pen rai». Può significare, secondo i casi: non ti preoccupare, non importa, non è niente, va tutto bene… Il seguito è sottinteso: sono ben altri i problemi, goditi la vita. Spesso è interpretata come una formula accomodante, superficiale, in realtà è un modo per cavarsi dall’impaccio o levare un altro dall’imbarazzo. È il corrispettivo semantico dell’insegnamento buddista secondo cui non vale la pena di soffermarsi su ciò che non si può cambiare.
Mai pen rai è un mantra indispensabile al raggiungimento del sanuk. Questo è un altro concetto base nello stile di vita thai. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. In termini che riecheggiano le filosofie orientali si può definire «la via della gioia di vivere». Il più profondo desiderio dei thai però è il sabai, il bene, in senso fisico, morale o psicologico, e ancor più il saen sabai, la sua forma assoluta, quasi una materializzazione del nirvana, l’estinguersi di ogni sofferenza.
Sanuk e sabai inoltre sono la chiave di quegli atteggiamenti che definiscono il modo thai di rapportarsi agli altri: con gentilezza, disponibilità, allegria (a volte canzonatoria). Il loro eterno sorriso non è una maschera, come spesso sospettiamo, bensì un mezzo per comunicare la propria disposizione a condividere sanuk e sabai. Attenzione però a non cadere nell’equivoco culturale opposto, ossia del sorriso come immagine immutabile, simile a quello sul volto del Buddha.
Altra parola del lessico thai che innesca molti equivoci culturali è chai. Significa cuore, ma in molti casi la traduzione migliore è mente. Infatti chai yen, il cuore freddo, è considerato una virtù. Tradotto come mente fredda rende meglio l’idea: è quella disposizione caratteriale e psicologica che permette di mantenere la calma. Al contrario chai rawn (un cuore o una mente calda) è quanto di più deprecabile: chi dimostra chai rawn gode di scarsa considerazione perché non è in grado di controllare le proprie emozioni. Ecco perché manifestare aggressività con un thai non serve a intimidirlo. Anzi, il locale ne trae la conclusione che si trova di fronte a una persona incapace di controllarsi. Allo stesso modo ogni altra manifestazione di forza (compreso lo stringere la mano con energia) viene considerata una forma di chai rawn, o comunque di maleducazione.
Una delle variazioni sul tema del cuore è kreng chai, dove kreng significa riverente. L’espressione non si può semplicemente tradurre come «un cuore riverente». Indica, infatti, un complesso di sentimenti ed emozioni che vanno dal rispetto alla paura, dalla sottomissione all’affetto. È il nucleo fondante del sistema di relazioni sociali thailandesi e ne attiva tutte le manifestazioni. Kreng chai significa dimostrare attenzione agli altri, partecipazione ai loro problemi, volontà di renderli felici. E così molto spesso i thai non esprimono il proprio pensiero quando credono possa offendere l’interlocutore o metterlo in imbarazzo. È un modo per evitare che l’altra persona perda la faccia, cosa che avverrebbe se si facesse notare un suo errore. Questo per uno straniero può rivelarsi un problema. Spesso, infatti, un thai risponde a una domanda dicendo ciò che pensa tu voglia sentirti dire, anziché la verità. Meglio dunque porre domande che non sottintendano una scelta già compiuta.
Questa norma è così connaturata perché fa parte del sistema che costituisce l’impalcatura della società, definito nel rapporto pii-nong. Vale a dire anziano-giovane. Meglio ancora: maggiore-minore. Un rapporto gerarchico molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali, l’esperienza, lo status. È un sistema che cristallizza le stratificazioni sociali, viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione dei meriti acquisiti nelle vite precedenti. Per la cultura occidentale, in cui i valori gerarchici sono sempre più messi in discussione, è un sistema incomprensibile; peggio, esecrabile. E ingenera l’ennesimo errore di comportamento.
Per molti «viaggiatori», il modo apparentemente più facile d’integrarsi nella cultura thai è salutare tutti. Nel segno del wai, il tradizionale gesto di saluto congiungendo i palmi delle mani di fronte al viso e abbassando leggermente il capo. In apparenza un modo spirituale e democratico di rapportarsi all’altro. Spirituale lo è, ma non nella forma in cui lo intendono i neo-orientalisti, quale suggestivo segno di pace. Il wai, infatti, rappresenta l’unione delle forze cosmiche che compongono l’energia presente in ogni cosa e in tutti gli esseri. Ma democratico proprio no. Il wai al contrario è regolato dalla gerarchia: normalmente è rivolto dal minore al maggiore e con diverse sfumature nell’inchino e nella posizione delle mani. Per questo rivolgersi col wai per primi a chiunque non è considerato una forma di educazione democratica. Anzi, rischia di mettere in imbarazzo chi lo riceve.
Alla fine, a forza di scansare equivoci, il vero rischio è la tipica sindrome degli expat provocata dal confronto tra visioni della vita troppo diverse, tradizione e modernità, misticismo e materialismo.