Sui banchi della farmacia

Nel Seicento si diffuse la necessità di regolamentare la preparazione dei medicamenti: tra questi compare anche il nettare di Bacco
/ 28.08.2017
di Davide Comoli

La diffusione della stampa all’inizio del Seicento (considerato il grande secolo di transizione) ha portato grandi contributi da parte di autori di enologia dell’epoca, grazie all’impegno di medici e, infine, quale conseguenza dell’istituzione delle Accademie. Le opere di questi sapienti poterono quindi essere divulgate con maggiore facilità.

Il Seicento è il secolo in cui vedono la luce molti geni, che hanno contribuito ad appagare la sete di sapere in molti campi, ma non si può dire che in fatto di medicina e di farmaci fossero stati realizzati sostanziali progressi dai tempi della medicina classica. I principi della Scuola Salernitana erano sempre considerati alla base della scienza medica ufficiale.

Gli spostamenti continui di truppe impegnate nelle campagne militari – legati alle nefaste vicende della guerra dei trent’anni che sconvolse l’Europa – favorirono lo scoppio di epidemie. Vale per tutte il ricordo della peste descritta dal Manzoni nei Promessi sposi che imperversò nel milanese nel 1630.

Non c’è quindi da stupirsi più di tanto se nel vino, in quanto a medicina, siano state poste tanta speranza e fiducia, non solo dal popolo formato da gente semplice e «ignorante», ma anche da grandi medici dell’epoca.

Le ragioni di questa nostra affermazione sono molte. Innanzitutto c’è il più volte ricordato senso del sacro riposto nel vino. Se il vino per noi cristiani poteva diventare durante la celebrazione della Santa Messa il sangue di Cristo, voleva dire che era una bevanda prodigiosa, da qui a investirla di poteri taumaturgici il passo fu breve.

Se poi pensiamo, in secondo luogo, alla facilità e alla capacità del vino di rendere gli uomini ebbri, quasi folli, vien da sé l’idea che ci sia sotto del divino: se questa sacra bevanda può mutare il carattere di un uomo perché non avrebbe potuto anche trasformare la sua malattia, guarirlo e restituirgli la salute?

Dunque la farmacopea era più o meno quella dei secoli precedenti (con il termine farmacopea, s’intende un testo ufficiale che include le preparazioni farmaceutiche e costituisce una sorta di «vangelo per i farmacisti»). Nel passato queste regole erano dettate da altri compendi che venivano chiamati antidotari, ricettari ed elettuari. Il ricettario pubblicato a Firenze alla fine del XV sec., è il primo documento con validità giuridica dettato dalle Autorità dell’epoca e perciò può essere considerato la prima Farmacopea ufficiale. Il nome «farmacopea» apparve per la prima volta nel 1560 e da allora ogni città e ogni Stato adottarono la propria.

Si diffuse così in tutti gli Stati la necessità di regolamentare la preparazione dei medicamenti. Numerosi i vini consigliati in questi ricettari in cui sono riportati anche i prezzi di vendita, come il «vino di granati» tariffato a un baiocco all’oncia, o il «vino emetico» venduto a sette baiocchi all’oncia come riportato nella Lista Rerum Petendarum emanata dalla città di Camerino.

Verso la fine del XVII secolo in alcune liste medicinali redatte in Francia, abbiamo trovato il «vino antimonio», utilizzato per molto tempo come emetico e sudorifero, già sperimentato da Paracelso, medico e filosofo svizzero (1493-1541) riformatore della medicina. Nel 1610 anche Londra pubblicò la sua Farmacopea e vi figuravano tra sostanze abbastanza fantastiche anche tre vini medicinali.

Il Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spagirico di Giuseppe Donzelli (1596-1670) celebre medico, filosofo e speziale, riporta ben 37 vini medicinali. Tra le pagine della Pharmacopée universelle stampata a Parigi nel 1677, abbiamo trovato una preparazione dove compaiono in dosi uguali olio d’oliva e vino rosso, usato per la pulizia delle ferite in modo d’accelerare le cicatrizzazioni, e in caso di stress si consigliava di berlo. Un altro compendio, Universale Teatro Farmaceutico edito a Venezia nel 1682, riporta i vini medicamentosi consigliati dagli antichi medici greci e arabi. Nell’elenco risultano circa 30 preparazioni tra cui il «vino Absintico», il «cefalico», del «Mesuè» e un «vino Hidragogo» ovvero diuretico.

Anche in Spagna dove per secoli esercitarono medici arabi, accanto a ebrei e orientali, sono numerosi i trattati farmaceutici che annoverano tra le ricette quelle con i vini medicinali. La Palestra Pharmaceutica Chimico-Galenica opera stampata a Barcellona alla fine del Seicento, elenca 11 vini e 2 aceti medicinali, tra cui quello «stibiato» o «emetico», il «febbrifugo» contro la Quartana, il «purgativo», quello di «china», di «legno santo o antivenereo», lo «stitico» e lo «stomatico».

All’inizio del XVIII sec. il Davini (il cognome sembra un segno), medico e farmacologo modenese, scrisse il De potu vini caldi che è tutto un inno alle virtù terapeutiche del vino. In particolare il Davini loda il vino caldo «per sciogliere la bile», agevolare la digestione dei succhi digestivi e rendere più attivi i «fermenti stomacali».

Oggi la conoscenza dei vini medicinali è scarsa, la parola «enolito» è assolutamente in disuso, essa deriva dall’unione di due termini greci eno (vino) e lytos (sciolto). Probabilmente l’impiego di questi vini non va al di là del vin brûlé che degustiamo con gli amici ai vari mercatini natalizi o dopo una giornata passata a sciare e sentiamo che è l’unica vera cura, atta a toglierci l’umidità e la stanchezza fisica prima di un buon sonno ristoratore.

Tornare al vino come farmaco miracoloso? Questo no, ma un po’ di vino nelle nostre farmacie, o una buona e accurata ricetta galenica preparata con «arte», chissà, magari non guasterebbe.

Concludiamo ricordandovi i versi della Bibbia (Ecclesiastico 31): «Qual vita fa colui che manca di vino? Salute dell’anima e del corpo è il bere sobrio».