Rinascita vitivinicola in Europa

Il vino nella storia - Come l’origine dei Comuni cambiò l’aspetto del paesaggio agrario
/ 24.10.2016
di Davide Comoli

Il sapere degli scrittori latini di agricoltura si trasmise al Medioevo passando attraverso inimmaginabili difficoltà legate alle condizioni storico-culturali. Ultimo rappresentante della tradizione dei Georgici latini e anello di congiunzione fra questi e il mondo medievale fu Rutilio Tauro Palladio.

Per la composizione dell’Opus Agricolturae IV sec. d.C. ca., Palladio aveva attinto alle opere di Columella e Varrone. Dopo l’introduzione, ogni libro era dedicato a uno dei 12 mesi dell’anno. Per ognuno di questi, l’autore dava indicazioni pratiche sulla gestione del podere e sulle operazioni colturali da compiere. Nel contesto delle nuove esigenze enologiche che si stavano manifestando dopo l’anno Mille, s’inserisce l’iniziativa di tradurre una parte delle Geoponiche intrapresa da Burgundione da Pisa (1110-1193), importantissimo intermediario fra la produzione teologica, filosofica, scientifica del mondo greco e l’Occidente, di cui abbiamo già accennato su «Azione 31» (pag. 19).

Le Geoponiche sono un’imponente raccolta di antichi testi di agronomia, compilati in Grecia fra il V e il X secolo. Dei venti libri che le compongono, cinque sono dedicati alla vite e al vino, e proprio ad alcune sezioni di questi, Burgundione rivolse la sua attenzione di traduttore. È molto probabile che egli scelse di tradurre la parte di maggior interesse per il mondo occidentale medievale: quella per l’appunto relativa al vino. Nella rinascita vitivinicola dell’Europa, c’era infatti una vera carenza di informazioni su questo argomento. L’autore più letto (si fa per dire) a quell’epoca, Palladio, nella sua Opus Agricolturae aveva dedicato poco spazio ai sistemi di vinificazione. La traduzione di Burgundione, raccolta nel Liber de Vindemiis rivestì quindi una straordinaria importanza per la viticoltura medioevale.

Da questo libro attinse ampiamente anche il bolognese Pier de Crescenzi, di cui scriveremo prossimamente. Fu tra il XI ed il XII sec. che si andò affermando nei borghi una forma di governo che tendeva ad assicurarsi una propria autonomia nei confronti di grandi feudatari laici ed ecclesiastici. Nacque così un nuovo organismo sociale, il Comune, che si dotò di proprie strutture per amministrare la giustizia e di una propria organizzazione militare. Per assicurarsi prestigio, ricchezza e naturalmente autonomia, i Comuni spinsero a dissodare le terre, a migliorare le produzioni e sfruttare al meglio la potenzialità dei terreni.

Negli statuti comunali dell’epoca, sono contenute importanti norme per la produzione e la tutela di un prodotto che stava diventando sempre più rilevante: il vino. Il paesaggio agrario cominciò a cambiare aspetto, le colline cominciarono a coprirsi di vigneti e le foreste subirono un arretramento; questo sviluppo sociale continuò sino al 1300. Si assistette gradualmente al risorgere di una nuova civiltà e questo portò anche un rinnovamento nella cultura della tavola. Pure nel campo vitivinicolo si ebbe un cambiamento notevole. Nei commerci si incominciò, infatti, a preferire i vini prodotti nel sud Europa, perché essendo più ricchi di alcol, presentavano una maggiore possibilità di conservarsi durante i trasporti.

Nel Medioevo, il commercio del vino non era estraneo alle adulterazioni, non sempre era purum et generosum. Per cui a tutela degli acquirenti furono istituite le Corporazioni che avevano in custodia la bilancia utile a scoprire e individuare le impurità delle merci: la birra veniva spesso adulterata e per porvi rimedio i mercanti di vino erano spesso sorpresi ad aggiungere ai loro prodotti materie estranee.

Dalla fine del XII sec. e nel corso del XIII sec., accanto alle premure dei proprietari di riscuotere vino bonum e purum, si incominciò a pretendere determinate qualità di vino e si favorirono gli impianti di vigneti con vitigni migliori o il rinnovo di vecchie vigne. Aggiungiamo che dal punto di vista organolettico, il vino veniva classificato secondo diverse categorie valutative, esse erano sostanzialmente determinate dal tipo d’uva impiegata, dal metodo di lavorazione, dal colore e dal sapore, insomma leggi antesignane delle nostre moderne DOC.

I consumatori del vino puro erano prevalentemente gli appartenenti a enti monastici ed ecclesiastici, ma esso compariva anche sulle mense dei nobili di più antica tradizione o su quelle di coloro che ricoprivano i livelli più alti della pubblica amministrazione. Non da ultimi ne consumavano pure i nuovi ricchi della borghesia, i quali vedevano nel vino un mezzo di elevazione sociale nonché di emulazione dell’aristocrazia: Nihil sub sole novum.

Per documentarvi sull’apprezzamento verso il buon bere in certi ambienti ecclesiastici tedeschi, vogliamo portare a conoscenza dei nostri lettori il gustoso apologo riportato da Salimbene da Parma. Cronista e frate minore francescano 1221-1287, nella sua Cronica trascrisse il trattatello De non miscenda aqua vino scritto da Primate, un canonico del XIII sec. Accusato di lussuria, gioco d’azzardo e di bere nelle taverne, il chierico si scusò in versi con un carmen potatorium dicendo tra l’altro «che riusciva a predicare solo quando aveva bevuto nelle osterie vino buono e senz’acqua: era grazie ai bicchierini che gli si accendeva il lume dell’intelletto e il suo cuore pieno di dolce nettare si librava in alto». 

«Per me – scriveva Primate – ha il sapore più dolce, il vino puro di taberna di quello che il coppiere del vescovo mesce annacquato» e proseguiva «ognuno ha dalla natura un dono particolare: io bevo di quello buono componendo versi e il vino puro che sta nelle botti degli osti genera un’abbondanza di prediche».

Concludiamo con un perentorio anatema scagliato dal vino contro l’acqua: «Chi fa mescolanza sia esecrato e separato dal Cristo nel secolo eterno».