«Last chance travel»: così molti organizzatori di viaggio etichettano alcune richieste sempre più frequenti della loro clientela. Il viaggiatore contemporaneo è consapevole che tra qualche anno soltanto potrebbe essere troppo tardi per vedere alcune parti del mondo, o alcuni popoli, quanto meno nel loro stato attuale.
Diversi fattori congiurano alla scomparsa della bellezza. Da un lato naturalmente ci sono gli effetti dei cambiamenti climatici. Quando nel 1910 il Parco nazionale dei ghiacciai fu creato nel Montana, Stati Uniti, si contavano circa 150 ghiacciai; oggi ne rimangono solo un sesto. La situazione non è migliore in Alaska e nel Canada settentrionale (per non parlare delle nostre Alpi). Oppure potremmo pensare alla Grande barriera corallina (Great Barrier Reef), lungo le coste dell’Australia. Secondo un recente sondaggio, la motivazione principale di oltre il 70 per cento dei visitatori era «vederla prima che scompaia».
Anche i viaggi naturalistici sono aumentati da quando si teme la scomparsa di alcuni habitat o l’estinzione di specie animali: il rinoceronte nero africano, preda ambita dei bracconieri, è un simbolo; ma le tigri d’Asia non se la passano meglio, se consideriamo che la popolazione attuale potrebbe essere il 10 per cento di quella storica. Nelle isole Galapagos, grazie alla straordinaria varietà di piante e animali, Charles Darwin elaborò la fondamentale teoria de L’origine delle specie. Oggi queste isole sono minacciate dall’aumento di temperatura degli oceani, dal bracconaggio, dall’arrivo di specie esogene grazie ai moderni mezzi di trasporto, dai troppi turisti. Per la tartaruga di Pinta Island è già troppo tardi: si è estinta nel 2012.
L’impulso dietro questi viaggi dell’ultima spiaggia è comprensibile, se non condivisibile, ma le conseguenze sono paradossali nella misura in cui si traducono in nuovi viaggi, nuove emissioni di CO2 e quindi in un’accelerazione dei fenomeni in corso: non dimentichiamo che già ora la metà dei viaggi aerei internazionali si deve al turismo. Troppi turisti inoltre, con il loro impatto ambientale e sociale, possono accelerare il declino di quello stesso paradiso tanto desiderato. Sull’altro piatto della bilancia ci sono una maggiore consapevolezza dei problemi e naturalmente i proventi del turismo: se ben impiegati possono aiutare la protezione dell’ambiente, specie nelle aree più isolate.
Altri viaggiatori temono invece gli effetti delle nuove tecnologie e della globalizzazione sulla diversità culturale. Per quanto tempo la Birmania o la Mongolia, da poco aperte al turismo internazionale, resteranno come sono? Nel percorso verso la modernità il cambiamento può essere sorprendentemente rapido. Lo ha spiegato anche Steve McCurry, statunitense, tra i più conosciuti fotografi di viaggio; il suo ritratto di una ragazza afgana, pubblicato sulla copertina di «National Geographic» nel giugno 1985, è diventato il simbolo di quella guerra infinita. In un’intervista recente McCurry ha raccontato: «Sono stato in Cina nel 1984. Era veramente un paese ai margini della carta del mondo, per quanto riguarda i rapporti con gli altri. E guardate oggi! In poco meno di 35 anni la trasformazione è inimmaginabile». Ha poi ricordato le numerose popolazioni di contadini e pastori incontrati nei suoi progetti fotografici: «Un sistema di vita basato sulla pastorizia può scomparire in un paio d’anni. Se un tempo i pastori passavano il loro tempo con le greggi e i loro bambini, d’improvviso ogni giorno devono andare al lavoro». E una volta iniziato il percorso verso la modernità, non si torna più indietro.
Anche la politica internazionale gioca un suo ruolo. La fine dei regimi dittatoriali è sempre buona cosa, ma può innescare una troppo rapida apertura al mondo. Fidel Castro è morto nel novembre 2016 e l’anno seguente i visitatori dell’isola sono saliti sino a quasi cinque milioni, nel timore che la vita cubana potesse perdere il suo colore e quella caratteristica ruvidezza.
L’antropologo francese Claude Levi Strauss più di ogni altro si è interrogato sul senso di queste trasformazioni culturali, nel suo famoso libro Tristi tropici (1955), nel quale ha raccolto una vastissima esperienza sul campo. Si chiedeva: «Quando sarebbe stato il momento migliore per visitare l’India? In quale periodo storico lo studio dei selvaggi brasiliani li avrebbe trovati nella loro condizione originaria?». Naturalmente più torniamo indietro nel tempo – quando la comunicazione e i contatti tra le diverse civiltà umane erano ridotti, così come la loro capacità di trasformarsi reciprocamente – più possiamo ritrovare le culture nella loro purezza. Al tempo stesso però i viaggiatori del passato erano incapaci di comprendere il significato e la ricchezza della diversità culturale, confusa ai loro occhi con la barbarie o l’ignoranza della vera e unica fede, come ciascuno giudicava la sua.
Ma noi siamo poi meglio di loro? Mentre inseguiamo le ombre sfuggenti del passato, giustamente preoccupati del loro svanire, potremmo non accorgerci di nuove realtà che stanno prendendo forma dinanzi ai nostri occhi e che meriterebbero tutta la nostra attenzione. Al Viaggiatore d’Occidente si richiede di saper guardare in entrambe le direzioni: verso il passato, verso il futuro.