So di sfidare l’impopolarità, forse più in Italia che in Europa, peraltro…, ma una cosa devo dire: non amo più di tanto la pasta ripiena. Lo so, esistono variabili di questa preparazione in tutto il mondo e, nello specifico, ogni comune, ma che dico, ogni frazione italiana ha le sue grandi tradizioni legate alla pasta ripiena. Persino i cinesi vantano prodotti affini, basti pensare ai loro dim sum (ravioli misti cotti a vapore che si vendono in baracchini per strada, soprattutto nel sud della Cina), che sono da un lato un classico break per pranzo e dall’altro una loro gloria riproposta in tutto il mondo, con tantissimi ristoranti specializzati e no, che prosperano ovunque.
Per correttezza ricordo che la pasta ripiena in Italia ha infiniti termini che la contraddistinguono; lemmi legati al ripieno, alla forma del raviolo, eccetera. Per comodità, in questo articolo li chiamerò tutti ravioli: qui termine generico per la pasta ripiena.
No. Potendo scegliere, al primo posto metto il mio piatto «perfetto», cioè un risotto – sono per tre quarti piemontese, ma lo sapete, tant’è che in questi anni vi ho proposto più di cinquanta ricette di risotti. Segue nella graduatoria, la pasta secca – il restante quarto è napoletano. E poi a scendere vengono l’amatissima polenta, gli gnocchi e via elencando; per ultime le zuppe, che non mi hanno mai convinto fino in fondo. Seguono le tagliatelle nei vari formati e si chiude con la pasta ripiena.
Forse è una sequenza un po’ barbara, so anche questo, ma è la mia… E comunque, se (anzi: dato che) la vera suddivisione dei piatti è tra quelli buonissimi, quindi quelli molto buoni, poi eccetera fino a quelli pessimi, resta valido un postulato che mi guida sempre: fra un risotto fatto male (dio mio, quanti ne ho incontrati in vita mia…) e dei buoni ravioli, vincono quest’ultimi. Però il cuore dice che la sequenza sopra indicata segue proprio il mio gusto…
Fra i ravioli, preferisco quelli asciutti a quelli in brodo (e già sento volare le pietre, pare che il raviolo in brodo sia la quintessenza del politicamente corretto); quelli piccoli a quelli grossi (questo è un dato neutro); quelli con la pasta tirata così sottile fino a essere trasparente a quella spessa (e questo invece lo condivido con la maggioranza dei miei amici).
Ciò detto, nell’ambito dei ravioli, se proprio devo puntualizzare, amo quelli del plin – in piemontese è il pizzicotto. Il nome del piatto deriva dal fatto che la pasta all’uovo viene stesa in lunghe strisce strette, sulle quali poi si distribuisce con un sac-à-poche il ripieno a intervalli regolari, si chiude la striscia, si sigilla al meglio e poi con un pizzicotto si separano i ravioli.
La farcia non è mai canonica, ognuno mette quella che vuole, i più utilizzano quella a base di carne arrosto (carni miste di vitello o bovino, maiale o coniglio) con spinaci o bietoline; ma esistono anche versioni di magro, con spinaci lessi e grana e più raramente con la ricotta.
Anche da questa sommaria descrizione si evince quanto siano difficili da preparare. Io credo che si possa essere in grado di farli se si ha visto nonne e mamme farli per anni, e anche in questo caso le prime cinquanta volte, li si chiuderà male e il ripieno fuoriuscirà. Solo dopo la cinquantesima si impara.
Io non ho visto nonne e mamme all’opera e quindi mi è mancato il prerequisito. Forse è questo il motivo per cui non li ho mai fatti: li ho solo mangiati (poco…) in ristoranti di fiducia.
Il politicamente corretto dice che i ravioli del plin andrebbero mangiati senza nulla, disposti in bell’ordine su un tovagliolo che alla fine non deve risultare unto. A molti invece piacciono con (tanto) burro scaldato a color nocciola e salvia, e se proprio è giornata, spolverizzati con tartufo bianco…