Il Canal du Midi è un capolavoro dell’ingegneria civile francese del Seicento. Corre per duecentoquaranta chilometri tra Tolosa e il Mediterraneo, è largo una ventina di metri, profondo due. In origine serviva a trasportare il grano senza passare per lo Stretto di Gibilterra, ma negli ultimi decenni è utilizzato piuttosto per canottaggio, pesca o ciclismo. Inoltre si può risalirlo con una houseboat, una specie di gigantesco camper acquatico.
Proprio questa è la mia proposta e, contro ogni aspettativa, le due famiglie, perfino i figli, l’accettano subito nominandomi capitano all’unanimità (con la mia prudente astensione). Mia moglie Francesca individua la barca giusta per noi: otto posti letto, due bagni, salotto e cucina. Quattordici metri galleggianti. Dal momento che non si affronta il mare aperto, non è richiesta nessuna patente nautica; chiunque può guidare – pardon, portare – la barca. Ottimo, dal momento che le mie precedenti esperienze si limitano a qualche breve uscita in mare, ospite in una barca d’altri; di mio al massimo ho remato con uno di quei pattini che ti affittano a ore in Versilia.
Tutto facile, a parole. Ma quando mi arriva il manuale del capitano mi sorge subito qualche perplessità: sono davvero parecchie le cose da sapere (e da saper fare). E prima bisogna imparare il vocabolario marinaresco: poppa e prua, pompe di sentina, cime (e non funi) da cazzare e lascare, bitte, ormeggi (guai a chiamarli parcheggi!). Ma non si scappa: se si vuol fare i marinai, bisogna curare anche lo stile. Ci sono poi alcuni disegnini poco rassicuranti, per esempio il mezzomarinaio (non è un nano) per allontanare la barca dalle pareti delle chiuse; va impugnato nella maniera giusta, altrimenti puoi cascare nel canale o sfondarti qualche costola. Ci sono anche le istruzioni legali in caso d’incidenti: altro che constatazione amichevole, non bisogna ammettere nulla!
Una visita pomeridiana all’amico Leonardo, espertissimo di barche e di houseboat, peggiora solo la situazione. Le istruzioni aumentano a dismisura, protraendosi fino a cena e anche dopo. Più mi rassicura e più mi sento inquieto. Potrò chiamarlo anche in viaggio, se avrò qualche problema, qualche dubbio, così mi dice. Il suo «Fammi sapere come va» mi ricorda le richieste della mamma: «Telefona quando sei atterrato». Non si sa mai.
Il viaggio verso il porto di partenza è un incubo: ai francesi piace interrompere il flusso del traffico con frequenti caselli; Bouchon (tappo) dicono i cartelli rossi dell’autostrada, lo impariamo subito. Arriviamo al porticciolo di Argens-Minervoise appena in tempo per ritirare la barca.
Quando feci un cammino con gli asini, il corso da asinaio durò una mattina intera, e non fu sufficiente. Qui un giovanotto stanco ci fa la lezione di scuola guida in soli venti minuti, teoria e pratica. D’altronde oggi ha già consegnato ventuno imbarcazioni e non vede l’ora di andare a casa. Mi mette al timone per una breve uscita di dieci minuti, sufficiente per sbattere due volte contro i muri dello stretto passaggio. Ci dev’essere abituato, perché non fa una piega. Io aspetto che si arrivi a parlare delle terribili chiuse, ben centotre, necessarie per superare centonovanta metri di dislivello lungo il percorso. Come le supererò? Il mio istruttore è pragmatico e sintetico: «Sono troppe cose da sapere, non ve le ricordereste, guardate come fanno gli altri».
Partiamo al mattino, in una bella giornata di sole. Siamo quattro donne e tre uomini in barca, come nel famoso romanzo umoristico di Jerome K. Jerome. In effetti come marinai facciamo abbastanza ridere ma d’altronde non è facile. Immaginate che per andare in città invece della vostra macchina vi diano un autobus di quattordici metri: le strade vi sembreranno strette. E il timone non è un volante. La barca comincia le curve in ritardo e con ritardo si raddrizza. Vira di poppa, con una deriva da calcolare; ha i suoi tempi. C’è un’elica di prua che aiuta le manovre, ma l’istruttore se l’è dimenticata. La scopriremo dopo due giorni e innumerevoli collisioni con le mura delle chiuse; i parabordi con noi lavorano.
La seconda chiusa si conferma chiusa di nome e di fatto, almeno per noi: sbattiamo forte. Poi in qualche modo passiamo e ormeggiamo in un grazioso porto, Homs. Per fortuna c’è un ristorante col buon vino delle regione. Nessuno ci farà l’alcol test.
La mia prima notte da capitano è tormentata. Francesca mi fa una psicoterapia antiansia d’emergenza e siccome è brava al mattino ripiglio il comando; d’altronde nessuno desidera sostituirmi e provare l’ebrezza della guida. L’alzaia è stata trasformata in una pista ciclabile, invidio i ciclisti che pedaleranno per tutta la lunghezza del canale. Anche noi abbiamo le biciclette a bordo, ma solo per brevi esplorazioni dei dintorni durante le soste. Poi, protetto dalla buonanima di qualche antenato marinaio, lentamente miglioro.
Avanziamo tranquilli tra i magnifici filari di platani, vediamo campagne e piccoli borghi. Impariamo a entrare nelle chiuse insieme ad altre due houseboat: è come parcheggiare tre camion in un fazzoletto. L’equipaggio funziona a meraviglia. Tommaso e Fabrizio saltano a riva, Alma e Martina legano le cime con nodi perfetti, Amina provvede alla cambusa, Francesca oltre alla terapia di supporto al pilota fa di tutto. La paura ritorna quando in una curva del canale incrociamo una chiatta di trenta metri, ma ormai sappiamo manovrare.
Scivolare sull’acqua a cinque nodi permette di essere rilassati e concentrati allo stesso tempo. La bellezza tutto intorno è un nutrimento, la mente entra in uno stato meditativo a occhi aperti, siamo tutti tranquilli e anche più buoni. Quando ormeggiamo a Carcassonne registriamo sensazioni contrastanti. Da un lato ci fa piacere scendere a terra, passeggiare lungo la duplice cerchia di mura, persino andare al cinema; eppure ci sentiamo un po’ straniti, specie quando la permanenza si prolunga per un guasto alla pompa di sentina (proprio quella che avevo studiato male). Nell’ultimo porticciolo dove lasciamo la barca faccio uno spettacolare ormeggio a marcia indietro tra altre due. Peccato che sia finito proprio ora che avevo imparato. Ma progettiamo già altre navigazioni; pare che quella nella laguna veneta sia magnifica.