Sul terrazzo i campanacci-ricordo

Itinerario

Partenza: Dangio  (800 msm)
Arrivo:  Pradóir   (1’460 msm) 

Dal paese si sale, sia seguendo la stretta strada forestale, sia il più diretto sentiero, fino a Cregua di Dangio (1’015 msm). Volendo accorciare il tragitto, si può raggiungere il nucleo di Cregua con la macchina, ma è piuttosto difficile trovare lo spazio dove parcheggiare. Da lì il sentiero sale nel bosco, sovrapponendosi presto a una ripida stradina sterrata, che permette l’approvvigionamento del monte con piccoli veicoli a motore, come i quad. Si passa in mezzo ai prati del Piano di Garè (1’240 msm), per poi inoltrarsi nuovamente nel bosco e risalire gli ultimi duecento metri, che ti portano a Prato d’Oro.

Dislivello in salita: circa 660 metri (da Dangio),  ca 450 (da Cregua di Dangio)
Lunghezza del percorso: circa 3 km
Tempo di percorrenza: circa 1 ora 
Difficoltà: T2 Facile passeggiata, nonostante il sentiero un po’ ripido.
Adatta a tutti. Ideale per una scampagnata nelle mezze stagioni o, in inverno, con le racchette.


L’ultimo nomade

Un’escursione a Pradóir, balcone fiorito della Valle del Sole
/ 03.02.2020
di Romano Venziani, testo e immagini

Non so quanti anni avesse quando l’ho conosciuto. A occhio e croce poco più di una sessantina, vista la sua età di adesso, ma già allora si portava sulle spalle i segni di una vita di lavoro duro e di fatiche. Il volto abbronzato solcato da un intrico di rughe, le mani incallite di chi non le ha mai lasciate in pace, la schiena un po’ ingobbita, come se stesse sempre trasportando un carico gravoso.

In quel primo incontro, Franco mi raccontò la sua storia, arricchitasi poi di dettagli negli anni seguenti, quando di tanto in tanto ritornavo a rendergli visita. Come sto facendo ora, in questa strana giornata di metà ottobre.

Strana, perché avvolta da un’immobilità inconsueta per questo momento dell’anno. Non un filo d’aria. Il cielo è un lenzuolo blu smunto steso sulle montagne, appena appena infreddolite nel loro abito di mezza stagione, e sui boschi ancora eccezionalmente verdi. Ci sono solo, qua e là, spruzzi di giallo caldo, qualche tocco di rosso vino, chiazze di toni bruni. Poche foglie secche sul sentiero, seminato, nel primo tratto, di ricci di castagno, qualche solitario fungo matto perso nel sottobosco maculato di sole.

Sto salendo a Pradóir o Pradöir, uno straordinario balcone affacciato sulla valle di Blenio, poco sotto i millecinquecento metri di quota. Il nome ne rivela la natura, in sostanza quella di un vasto prato sospeso proprio sull’orlo (ör/öir) del pendio coperto di boschi, che va giù a capofitto verso il paese di Aquila.

Io, ma probabilmente non sono il solo, continuo a chiamarlo impropriamente Prato d’Oro, perché questo ampio terrazzo naturale cosparso di pascoli era una preziosa riserva di foraggio per i contadini del posto, confrontati con un territorio, quello bleniese, per oltre il cinquanta per cento ricoperto di boschi e terreni improduttivi, dove anche una manciata di erba valeva oro. 

Franco Vanzetti, di Dangio, fa il contadino da quando è nato e continua a farlo anche da pensionato. Non proprio attivamente, nel senso del munger mucche, fare il formaggio o spazzar letame, ma per l’eredità che lascia a chi gli è succeduto, a quei resistenti che, con grande passione, rimangono abbrancati alle origini e a quell’agricoltura di montagna tanto essenziale quanto densa di sacrifici, mal retribuita e bistrattata dalle circostanze, contingenti o meno. E poi, lui, quel mestiere se lo porta dentro, quasi fosse scolpito nell’anima, come una sorta di missione di cui parla senza nascondere la commozione. 

Quando l’avevo conosciuto, amava definirsi l’ultimo contadino nomade della Valle di Blenio, anzi, «probabilmente di tutto il Ticino», aggiungeva con fierezza. Sì, perché Franco e la sua mandria erano in perenne movimento. Dal piano, al monte, all’alpe e viceversa. In un continuo trasmigrare, che gli permetteva di sfruttare nel modo più razionale possibile i pascoli e le riserve di foraggio. In un anno, sei transumanze. Roba da Guinness dei primati.

Ricordo quella, a metà luglio, dal pre-alpe di Garzott specchiato nel lago di Luzzone, all’alpe di Motterascio, disteso sulle dolci gobbe fiorite che annunciano l’altipiano della Greina. Con il fiato sospeso, avevo seguito la quarantina di mucche sullo stretto sentiero che taglia obliquamente il fianco della montagna, alto, sopra l’acqua nera del lago. Bastava un passo falso, a una bestia, per rotolar giù dal dirupo e sfracellarsi sulle rocce. E non sarebbe stata la prima volta. In quell’occasione, mi ero meravigliato vedendo la cautela e la disciplina con cui la mandria procedeva sopra il burrone. Più su, quando la gola finisce e la montagna si apre nella Val Garzòra, le mucche si erano messe a correre per il sentiero, fiutando l’erba tenera della Greina che le aspettava là in alto. 

Attorno alla metà di settembre, quando i pascoli ormai radi di Motterascio si svegliano il mattino coperti da un velo ghiacciato di brina, la mandria tornava giù a Garzott, vi rimaneva per un paio di settimane e poi via, di nuovo, verso Pradóir, dove passava l’inverno. Agli ultimi di gennaio, il ritorno in paese, a Dangio, fino al tardo aprile, poi su di nuovo, Pradóir, Garzott, Motterascio…

Nel passato, la pratica del nomadismo coinvolgeva l’intero mondo contadino e lo spostamento del bestiame era una sorta di rito, rigorosamente codificato. Si chiamava carent, scrive Guido Bolla nella sua Storia di Olivone, e ul dì d’carent, di solito un venerdì o un sabato, era un giorno di festa annunciato la sera della vigilia con fuochi di gioia.

Il sentiero, che sale a Pradóir, dopo Cregua di Dangio è piuttosto ripido e monotono, ma il paesaggio che ci aspetta all’arrivo compensa largamente la fatica. Qua e là, lungo il percorso, la vista si apre sulla valle, i villaggi della sponda destra del Brenno, la regione del Nara e il profilo di cime, che le fanno da corona, il pizzo Erra, il Molare, la Punta di Stou e quella di Larescia, con il suo cubo-rifugio del Nido d’Aquila.

Al Piano di Garè siamo più o meno a metà strada. Un pugno di rustici ben riattati all’ombra di vecchi noci, aceri colorati e ciliegi dai tronchi tormentati. Da qui scopri la Val Soi, che sprofonda nel massiccio dell’Adula. La vetta bianca si intravvede appena, ma si racconta, che, sul finire dell’Ottocento, il suo ghiacciaio faceva ancora capolino sporgendosi sopra il crinale del Laghetto e la gente di Dangio, la notte, poteva sentire il boato cupo dei seracchi, che collassavano precipitando giù nella valle.

Con un ultimo sforzo, si rosicchiano i 200 metri di dislivello mancanti e si arriva a Pradóir. Il sentiero scorre in mezzo ai pascoli, dove sonnecchiano alcune mucche, che mi guardano passare incuriosite con quei loro languidi occhioni. Attorno, le cascine e le stalle addossate al limite del bosco di conifere, la Faura de Pradóir, che abbraccia il monte, proteggendolo dalle rocce minacciose della Cima di Pinadee. Verso nord, una distesa di erba giallognola, sfregiata da una fiammata rossa, un faggio, forse, da lontano non so distinguerlo.

Dietro, disegnati sull’orizzonte, l’incavo del Lucomagno, la conca del Döttra, il Pizzo Rossetto, in secondo piano lo Scopi, la Cima della Bianca, il Medel e, un po’ più vicino, la cuspide inconfondibile del Sosto. Lo ricordo ammantato di neve, Prato d’Oro, proiettato contro un cielo di piombo, un gennaio agli sgoccioli di tanti anni or sono. Esaurite le scorte di fieno, Franco stava preparando la transumanza verso il piano. Ero rimasto qui un paio di giorni, meravigliandomi, quando, la sera dal cielo avevo visto cadere fiocchi dorati, mentre il sole spennellava la Bassa del Nara. E avevo apprezzato una volta di più le qualità e la sensibilità di quell’alpigiano tutto d’un pezzo, il suo rispetto per l’uomo e la natura e l’amore per le bestie, che in fondo, ripeteva, «sono il mio capitale». 

La Regina, ferita a una gamba, l’aveva fatta scendere a valle appesa al cavo dell’elicottero («sarà contenta anche lei di tornare a casa in pochi minuti»), il vitellino spedito con la teleferica e poi con Rosette, la sua giovane aiutante argoviese, aveva scavato un sentiero dove la neve era più alta e ricoperto di terra le lastre di ghiaccio insidioso per rendere più sicura la discesa. È stato il primo, Franco, ad avvalersi della cooperazione di donne, studentesse o neolaureate, soprattutto svizzero-tedesche, con la passione per la natura e gli animali, desiderose di farsi un’esperienza sull’alpeggio. Una novità in un mondo fino ad allora prettamente maschile. Il nostro contadino nomade, al tempo stesso pragmatico e idealista, ma soprattutto lungimirante, è stato un precursore dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi decenni nell’agricoltura di montagna. 

Già agli inizi degli anni Sessanta, sperimenta l’uso dei fermenti lattici, promuove, spesso avversato, nuovi metodi di fabbricazione del formaggio (il suo vincerà la medaglia d’argento all’Esposizione nazionale di Losanna del 1964), cura il bestiame con l’omeopatia e punta sulla produzione biologica, molto prima che si inizi a parlarne.

Franco mi sta aspettando. Contento. Non che gli manchi la compagnia. Tutti i giorni c’è qualcuno, che sale a trovarlo. È così, quando uno ha un cuore grande. Il fuoco scoppietta nel camino, sulla stufa a legna l’acqua borbotta nella pentola. Dal balcone il panorama è grandioso. Appesi contro il muro, lì fuori, alcuni campanacci di bronzo, con il suo nome, le date e le figure di fiori, mucche, capre e gli stemmi della Svizzera e del Ticino.

«Come va?» Gli chiedo. «Non male. Ormai le gambe non sono più quelle di una volta, risponde, faccio solo qualche giretto appoggiandomi al bastone». 

Ho notato, arrivando qui, un paio di sedie sistemate in posizione strategica, al limitare dei prati, dove la vista si apre sulla valle. Due passi e poi si siede e sta lì a controllare, come dice lui, quello che succede là sotto, in paese. Da quando è andato in pensione, sei o sette anni fa, vive buona parte dell’anno a Pradóir. Scende solo quando incomincia a fiutare l’aria di neve, che scivola giù dalle cime. Allora viene a prenderlo con il quad, il Donato, il contadino che gli ha affittato l’azienda. È contento, Franco, del Donato, «perché, almeno, quello che ho fatto in tutti questi anni non è finito in niente». E poi può ancora vedere le sue mucche, quando salgono a pascolare quassù. 

Sulla parete dietro la panca, tante fotografie, con le amiche e gli amici venuti a trovarlo, i collaboratori che sono stati al suo fianco qui e sull’alpe, le sue bestie, qualche spicchio di paesaggio. Ce n’è una con lui, giovane, in piedi sul ponte di legno, che ha costruito con le sue mani, sopra un torrente nella Greina, dopo che una delle sue aiutanti c’era cascata dentro, buscandosi la polmonite. Tanti ricordi, che rievoca con gli occhi lucidi. Lui però non vive di ricordi. Guarda avanti, si interroga sul futuro, più che suo, di questo mondo, che non va per niente bene. Non è più l’ultimo contadino nomade, ora, Franco, ma per me rimane il contadino filosofo, con i suoi pensieri profondi, l’acutezza dei ragionamenti, l’apertura di spirito e la grande esperienza di cui ti fa partecipe. 

Il cielo intanto si è sbiancato, riflettendo quella lucentezza che ammoscia tutti gli altri colori. È tempo di tornare al piano. Un saluto, la promessa di rivederci presto e mi metto in cammino.