«Bangkok sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. È una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale» ha scritto Tom Robbins nel romanzo Villa Incognito. Il libro è del 2003 ma ancora oggi è difficile trovare una descrizione migliore di Bangkok.
«La città del collasso»: così la definiva Gaia Scagnetti, studiosa della complessità, quando insegnava alla Chulalongkorn University, il più antico ed esclusivo ateneo della Thailandia. Il suo era un pensiero critico, non una critica. «È un collasso positivo: la città vecchia e quella nuova non si sono trasformate in qualcosa d’altro, sono collassate nello stesso punto… come una radice che riproduce altre piante».
Attraverso queste contaminazioni si espande Bangkok. «Se vuoi capire Bangkok, però, devi scegliere se focalizzarti sui luoghi o sul movimento che generano. È il principio d’indeterminazione» dice Christopher G. Moore, scrittore che vive e ambienta qui i suoi noir. «Ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto tra tradizione e modernità, specie nella surrealtà urbana» concorda Tew Bunnag, scrittore e maestro di arti marziali, appartenente a una delle più nobili famiglie dell’ammart, l’élite thai, che ha scelto di vivere in bilico tra le contraddizioni. «La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante» dice. «Serve per arrivare alla nozione di Dio».
Nonostante Bangkok si riveli sempre di più un laboratorio della complessità, un incubatore di quel «pensiero debole» che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, da molti è rappresentata con un certo torbido compiacimento come un santuario di vizi, un «cuore di tenebra». È un’immagine alimentata anche dagli stessi noir di Christopher Moore o di John Burdett, ex avvocato inglese che fa muovere il suo personaggio, un investigatore con trascorsi da monaco, tra maghi, trafficanti e prostitute.
Il romanzesco è anche realtà. Parte della città, si dice, sta collassando per l’acqua pompata dal sottosuolo per alimentare le jacuzzi delle sale massaggio – un eufemismo per bordelli – grandi come alberghi: 120, quelle registrate. È un fenomeno che ha ragioni altrettanto profonde dell’acqua; si alimenta in una cultura edonistica, in una religione che non considera il sesso come un peccato capitale, nella storia degli anni Settanta, quando Bangkok divenne la meta dei militari americani in licenza dal Vietnam. In quegli stessi anni, Bangkok era l’ultimo terminale dei «vagabondi dell’Asia», in cerca di misticismi e paradisi artificiali. Per anni poi Bangkok è stata lo snodo di traffici d’ogni genere e santuario di trafficanti e rifugiati. Infine è divenuta la meta prediletta dagli espatriati (expat) attratti dal Paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, dove la pensione vale di più e la vecchiaia sembra sospesa.
Alcuni ci riescono, per molti altri si rivela una delusione e scatena depressione, tanto da indurli al suicidio. È una vera e propria sindrome culturale. «È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza» dice Tew Bunnag. «A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».
Un buon posto per trovare questo equilibrio, meditando in sale disseminate di cuscini a forma di pietra, è il BIA, il Buddhadasa Indapanyo Archives: un edificio dall’architettura organica, con le sue colonne sull’acqua del laghetto nel parco di Suan Rot Fai (accanto al famosissimo mercato di Chatuchak). Prende nome da Buddhadhasa Bhikkhu, «pensatore buddhista per il mondo moderno», secondo cui secolare e spirituale non sono entità separate. È anche alla sua filosofia che si ricollegano molti artefici dell’ultima metamorfosi di Bangkok che, come direbbe Gaia Scagnetti, sta facendo collassare gli stereotipi: sessuali, criminali, culturali.
Parte del cambiamento, bisogna ammetterlo, va accreditato alla giunta militare al governo dal 2014, che vuole fare della capitale un simbolo di cambiamento, ordine, sviluppo: Bangkok 4.0 è lo slogan, l’obiettivo è trasformarla in una nuova Singapore, in termini strutturali e finanziari, grazie anche al sostegno della Cina. Il simbolo è la MahaNakhon Tower, il grattacielo più alto di Bangkok (314 metri), sovrastante il Central Business District. Non a caso è stato progettato da Ole Scheeren, archistar tedesco che lavora con l’Office for Metropolitan Architecture di Pechino. L’intero perimetro della torre è stato scomposto in parallelepipedi di cristallo, una sorta di nastro tridimensionale di pixel che ha radicalmente cambiato lo skyline della città.
Altri lavori in corso stanno ridisegnando il lungofiume: presto sarà segnato da nuove torri, da un megacentro commerciale della compagnia giapponese Takashimaya e da una promenade per collegare il tutto. Su questa linea di rinnovamento s’inserisce il progetto della Biennale d’arte: la prima edizione dovrebbe svolgersi a fine 2018, in contrapposizione a quella già collaudata di Singapore.
Un’altra iniziativa di marketing governativo è l’edizione della prima guida Michelin dedicata a Bangkok. Ha riscosso più attenzione mediatica del rinvio delle elezioni al 2019 e soprattutto ha fatto notizia l’assegnazione di una stella al Jay Fai, un umile ristorante a pochi passi dal quartiere dei backpacker (ma l’omelette al granchio è davvero stellare).
«Bangkok ha bisogno di una visione» dice l’architetto Duangrit Bunnag, uno degli artefici del rinascimento culturale di Bangkok, sostenitore del caos creativo, dell’entropia del riutilizzo piuttosto che della nuova costruzione. La sua visione dunque non è quella della grandeur in salsa thai. Anzi è molto critico nei confronti dell’attuale politica e vorrebbe collegare la cultura al senso della vita. Bunnag ha messo in pratica la sua visione come artefice del Creative District, un’area su entrambe le rive del fiume in cui vecchi edifici e magazzini sono divenuti gallerie d’arte, studi di design, concept store, librerie, ristoranti. Anche il vecchio edificio delle poste è stato trasformato nel Thailand Creative & Design Center, Bunnag lo definisce un luogo di «intrattenimento culturale».
A questo modello si è ispirato anche il restauro e riutilizzo del Lhong 1919, lo scalo sul fiume, un tempo il terminale dei traffici mercantili tra Cina e Thailandia, dove i magazzini sono stati trasformarti in boutique e gallerie d’arte. «Thai significa libero» dice Bunnag. «Il futuro della Thailandia sta tutto in una nuova generazione di creativi che pensino liberamente».