«Beviamoci un goccio, prima di partire» mi dice Frère Nicolas, strizzandomi l’occhio, mentre versa nel bicchierino due dita di un liquido incolore e profumato.
«Ce la faremo ancora a camminare?» gli chiedo, perplesso.
«Non ti preoccupare, è dissetante e ricostituente. Ti fa scalare le montagne» risponde con l’aria sorniona da folletto, allungando il braccio sotto l’acqua della fontana, con cui riempie, lentamente, il suo bicchiere. Lo imito, osservando affascinato quella strana alchimia, che trasforma la trasparenza del mio calice in una bevanda dai singolari riflessi di madreperla.
«L’amico della Fata verde ha colpito ancora» penso, sorseggiando il liquido fresco, che mi lascia in bocca un retrogusto amarognolo e forte, con chiari sentori di erbe.
D’altronde non poteva essere altrimenti. Nella Valle di Travers si celebra così ogni evento. Brindando con un goccio d’assenzio. Anche l’inizio di una passeggiata, se a farti da guida è Frère Nicolas o Druide Nicolas, come ama pure farsi chiamare.
Nicolas Giger non ha niente del frate. Infatti non lo è. E non ha nemmeno l’aria di un druido, nonostante sia affascinato dagli arcani misteri del mondo celtico, la cui magia aleggia tra i boschi della regione. È un simpatico ottantenne, che sprizza energia e gioia di vivere, passione e conoscenza, intelligenza e umorismo, che gli fanno prendere la vita dal verso giusto, sdrammatizzandone i lati oscuri e apprezzandone ogni attimo fuggente.
Frère Nicolas è fiero della sua valle, cui è profondamente radicato. Le appartiene, come le appartengono l’Areuse, che distende i suoi placidi meandri in mezzo ai prati, o il châpeau de Napoléon, la collina alle spalle di Fleurier, così chiamata per la sua forma evocatrice, oppure ancora l’assenzio, qui coltivato da secoli, con il quale, nel 1798, Henriette Henriod, una vecchia e stramba «aggiustaossa», preparava un elisir per la salute dei suoi «pazienti». Quell’elisir divenuto poi la fata verde o la bleue, liquore maledetto, amato da poeti e artisti, in seguito demonizzato al punto da farlo mettere al bando, nel 1910, e infine riabilitato dopo un secolo di tollerata clandestinità.
E tra chi ha continuato, di nascosto, a distillare quel miscuglio di erbe officinali in rudimentali alambicchi, nelle fumose cantine della Valle di Travers, c’era anche lui, Frère Nicolas. «Ci sono caduto da piccolo, nel pentolone dell’assenzio» mi confessa e, da allora, tutta la sua vita è impregnata dal profumo intenso della fata verde, che lo vede festeggiare in prima fila, nel 2005, il giorno della sua liberalizzazione e, più tardi, tra gli ideatori della Route de l’absinthe, sentiero storico-culturale franco-svizzero, che si snoda attraverso il Pays de l’absinthe, tra la Valle di Travers e Pontarlier.
Oggi, però, Frère Nicolas mi vuol far scoprire un altro percorso escursionistico, frutto anch’esso della sua spumeggiante inventiva: la Vy aux Moines, l’antico sentiero utilizzato nel Medio Evo dai monaci del priorato Saint-Pierre di Môtiers per render visita ai loro confratelli dell’abbazia di Montbenoît, sulle rive del Doubs, nella Franca-Contea.
Abbandonato per secoli, il percorso, che attraversa le fitte foreste e i pascoli giurassiani, è stato riscoperto da Nicolas Giger e aperto ai turisti una decina di anni fa (1).
«E ora facciamoci un bagno nella storia». La voce del mio accompagnatore, frate o druido che sia, mi scuote da quel leggero sopore in cui mi hanno immerso il bicchierino di bleue e il mormorare di questa splendida fontana, monumento all’importanza dell’acqua, che campeggia, spruzzata dal rosso dei gerani, sulla piazza di Môtiers.
La Vy inizia a due passi da qui, partendo da un’antica costruzione addossata alla chiesa. È il Priorato di Saint-Pierre, fondato nell’XI secolo dai monaci benedettini di Cluny, i quali, fedeli al motto ora et labora, oltre alla preghiera e allo studio dei testi biblici, si dedicano alla bonifica delle terre di quella che all’epoca è ancora una valle selvaggia e ricoperta di boschi.
Attorno a quell’embrione di vita innestato nel cuore della regione, nasce un villaggio, Môtiers, il cui nome deriva dal latino monasterium, il monastero, appunto.
Non vive però di solo spirito, il Priorato, ma esercita anche un potere temporale che allunga le sue mani e i suoi possedimenti ben oltre i confini della vallata, tanto che le aspirazioni d’ordine materiale avranno presto il sopravvento sulle preoccupazioni spirituali, provocandone il declino. Dopo il 1531, con la Riforma e l’incalzare del protestantesimo, la comunità monastica è costretta a fuggire e a rifugiarsi nell’Abbazia di Montbenoît, nel cosiddetto Pays du Saugeais.
È la fine del Priorato di Saint-Pierre (2) e quella della Vy aux Moines, che da quel momento cade nell’oblio.
Tonificati nel corpo e nell’anima, iniziamo finalmente il cammino.
Lasciato Môtiers e attraversata la piana verdeggiante di prati e giardini coltivati, dove scorre l’acqua tacita dell’Areuse, il sentiero s’inerpica sul Mont de Boveresse, il tratto più scosceso e impegnativo del percorso.
«Di qui, nel corso della storia, sono passati mercanti di sale provenienti dalla Borgogna, contrabbandieri, rifugiati e nuove ideologie», mi racconta Frère Nicolas, mentre c’inoltriamo in una foresta fitta e odorante di resina.
Su questo bosco regna un albero secolare. Nel suo tronco, contorto come un vecchio corpo prosciugato dal tempo, si apre uno squarcio profondo, dove i monaci avevano collocato una statuetta della Vergine. È il Tiglio dei cattolici, ai cui piedi, i religiosi s’inginocchiavano per pregare prima di affrontare un viaggio denso di pericoli.
Frère Nicolas fruga pensieroso nello zaino e ne estrae una bianca effige della Madonna di Lourdes, che posa con precauzione nel ventre del patriarca.
«Questa è la quinta…me ne hanno già fregate quattro… Adesso sono contento, perché la Vergine è di nuovo al suo posto. Quella originale l’hanno fatta a pezzi ai tempi della Riforma».
Lasciamo il tiglio monumentale, ultimo testimone di un’epoca, e riprendiamo il cammino.
Il Giura è un vecchio volto rugoso e l’attraversarlo è un continuo su e giù, alternato da ampi pascoli pianeggianti popolati di mucche tranquille e sonnacchiose. Il paesaggio è tutto un pulsare di verdi; chiaro quello dei prati, più scuro quello delle latifoglie, quasi nero, quello delle estese macchie di conifere, dove Jean-Jacques Rousseau amava fare romantiche passeggiate, seguito dal cinguettare di petulanti demoiselles, che intratteneva conversando di botanica e filosofia.
Rousseau soggiorna qui tra il 1762 e il 1765, ospite dell’amico Abram de Pury, colonnello, storico e patriota, che pochi anni prima ha edificato il Domaine de Monlési, una massiccia dimora, con stalla annessa, poi distrutta da un incendio e ricostruita tale e quale nel 1799.
È un lungo parallelepipedo di un bianco accecante, sormontato da ampi tetti spioventi sorretti da grosse travi. Le finestre interrompono la monocromia delle facciate con le loro persiane dipinte a strisce bianco-blu, in onore della regina Luisa di Prussia (3).
Anche gli interni, che il gentile fattore mi fa visitare, «mais il ne faut rien dire au patron», conservano gli arredi e le atmosfere del secolo dei lumi, così, come li ha lasciati il filosofo ginevrino.
Con un ultimo sforzo raggiungiamo la Citadelle, il punto culminante del percorso, una collina tondeggiante ricoperta di pascoli punteggiati dal giallo delle genziane, i cui grossi steli, che reggono una simmetria di larghe foglie nervate, s’innalzano sopra l’ondeggiare dell’erba.
Da quassù lo sguardo si apre su un panorama straordinario, che spazia dalle grinzosità del Giura franco-svizzero alle vette innevate e lontane delle alpi bernesi, che si stagliano contro il cielo con il grafico profilo dell’Eiger, del Mönch e della Jungfrau.
La Citadelle deve il suo nome a una fattoria fortificata, oggi scomparsa, proprietà del Priorato, in cui i monaci in cammino trascorrevano la notte al riparo dagli orsi, dai lupi e dai briganti, che tendevano agguati mortali nel fitto dei boschi. Quei boschi che oggi ancora nascondono angoli sorprendenti e inaspettate curiosità.
Come la Glacière de Monlési.
«È a una ventina di minuti di cammino da qui», spiega Frère Nicolas, avviandosi sul sentiero, che scende in mezzo alle genziane sul versante occidentale della collina, per poi inoltrarsi nel folto della foresta.
Ai margini di una radura, scopriamo un’ampia cavità circondata da alte conifere. È come uno squarcio circolare nella roccia, un antro oscuro, che sprofonda per una dozzina di metri, con le pareti ricoperte da un rigoglio di felci, che gli conferiscono l’aspetto di un intricato giardino pensile.
La particolare conformazione geologica ha disseminato il massiccio del Giura d’innumerevoli anfratti come questo, molti dei quali nascondono ancora i resti di antichi ghiacciai.
La Glacière de Monlési è quello più importante e meglio conosciuto. Il fondo della cavità è ricoperto di ghiaccio, che s’insinua profondamente colmando l’ampia grotta che si apre tutt’attorno. Pare ce ne siano 10 mila metri cubi, che sono lì da tempi immemorabili.
L’accesso è facilitato dalla presenza, nella parte alta, di funi di metallo e poi, nell’ultimo tratto, di una scala di ferro ancorata alla parete rocciosa.
Giunto sul fondo, mi rendo conto dell’ampiezza di quel ghiacciaio sotterraneo, che riempie una vasta sala, dalla cui volta pendono bianche stalattiti di ghiaccio.
Il fenomeno all’origine della Glacière è dovuto a un sottile equilibrio climatico che genera, durante l’inverno, un flusso d’aria fredda, che s’insinua nella cavità gelando l’acqua d’infiltrazione. L’estate, invece, l’importante contrasto tra la densità dell’atmosfera esterna, molto più calda, e quella del sottosuolo, blocca la ventilazione, imprigionando l’aria fredda all’interno della caverna.
Una volta si pensava che il ghiaccio, quaggiù, avesse origini millenarie, recenti studi hanno invece appurato che, alla sua base, il ghiacciaio si scioglie, rinnovandosi così con il tempo, tanto che il ghiaccio più vecchio non ha che un centinaio di anni.
Dalla Glacière di Monlési, il più grande ghiacciaio svizzero al di fuori dell’arco alpino, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, si cavavano i blocchi di ghiaccio, che erano trasportati in treno fino a Parigi, dove finivano, sotto forma di tintinnanti glaçons, nei bicchieri dei bistrots e delle brasseries.
Ed è quello stesso fenomeno climatico, l’inversione termica, che conserva nei boschi giurassiani l’anacronistico ghiacciaio sotterraneo, a fare della Brévine la Siberia della Svizzera.
Dopo un’ora buona di marcia tranquilla, attraverso prati fioriti e boschi ricoperti di felci e muschi, arriviamo in vista della vallata. È un vasto altipiano incorniciato da bassi rilievi e foderato di pascoli. Qui il settore primario è ancora vitale e la valle, vista dall’alto di Les Cotards, sembra un minuscolo Serengeti nostrano con mandrie di mucche paffute, che fanno vibrare l’aria con un risuonare ininterrotto di campani.
La via dei monaci ora scende sulle rive del lago di Taillères, per poi attraversare la valle e salire a Le Bredot, dove s’incontra l’attuale confine con la Francia.
È un paesaggio ben diverso da quello che si presentava agli occhi dei monaci del Priorato in cammino verso Montbenoît, mezzo millennio fa.
Prima che i contadini venuti da Le Locle la dissodassero, nel XVIesimo secolo, la valle era ricoperta di fitte foreste di conifere, sfruttate per la loro resina.
Risale proprio a quell’epoca la leggenda, secondo la quale gli abitanti di Estallières, uno dei rari insediamenti della regione, una notte sono risvegliati bruscamente da un rumore spaventoso. Usciti dalle loro casupole, scoprono che la grande foresta, che si estendeva lì attorno, è improvvisamente scomparsa, inghiottita da una voragine del terreno. Al suo posto, si è formato un lago, poi denominato di Taillères. Per quanto inverosimile, il racconto popolare è stato suffragato nel corso del tempo anche da eminenti geologi. Sarà solo a inizio Novecento, che una campagna di studi dimostrerà che il lago è ben più antico e risale all’epoca glaciale.
Un fatto è comunque certo. Nei momenti di abbondanti precipitazioni, le sue acque defluiscono in un piccolo canale, sprofondano in una cavità sotterranea per poi andare ad alimentare le sorgenti dell’Areuse, che sgorgano copiose a sei chilometri da lì, nella valle di Travers.
Oggi, il lago, durante l’estate, è il regno dei pescatori e dei bagnanti e diventa un’estesa pista di pattinaggio nel corso dei lunghi mesi invernali.
Di là dalla valle, la Via dei Monaci riprende a salire dolcemente e, in pochi minuti, si raggiunge Le Bredot e il confine francese.
La frontiera è vecchia di duecento anni. Alla fine delle guerre napoleoniche, si ridisegna la mappa europea e si delimitano i nuovi confini tra gli Stati. Su queste alture, si traccia una linea più o meno regolare, che segue lo spartiacque. La si punteggia di massicci cippi di pietra squadrati, su cui sono scolpiti il numero progressivo, la data della posa, il 1819, il giglio, simbolo del Re di Francia, e l’antico blasone di Neuchâtel, ammesso quattro anni prima nella Confederazione Elvetica (4).
Siamo a metà strada e ci rimane da percorrere una quindicina di chilometri, ma il paesaggio in cui ci si trova immersi ripaga largamente dalla fatica del viaggio.
Entrati in territorio francese, è sempre la natura a far da padrona. Solo qualche antica fattoria persa in mezzo ai vasti pascoli e alle foreste di abeti, la cui continuità è interrotta qua e là da radure bagnate dal sole.
«Non è stato facile ricostruire il percorso storico per Montbenoît - mi dice Frère Nicolas - quando sono partiti, scacciati da Môtiers dalla Riforma protestante, i monaci hanno preso con sé tutti i loro documenti, andati poi in buona parte distrutti, per cui non avevamo molte informazioni. Si sapeva che passavano dal Tiglio dei Cattolici e da alcuni posti ben precisi, ma poi trovare il tracciato originale nella sua interezza era quasi impossibile. Ho setacciato questi boschi con un amico storico e, per finire, nel dubbio abbiamo deciso di sfruttare ogni tanto i sentieri già esistenti, per non crearne di nuovi».
Prima di scendere nella valle del Doubs, la Via dei Monaci passa dall’Auberge de la Perdrix, una fattoria di montagna del 1684, che conserva al suo interno il vecchio forno del pane e il tuyé, un immenso camino nella cui cappa, durante i lunghi mesi invernali, i contadini appendevano i salumi ad affumicare. Se questo metodo di conservazione della carne era diffuso nel passato anche in altri paesi, qui la pratica si è tramandata nel tempo, dando vita ad un’eccellenza gastronomica tipica della regione (5).
Sul fondo della valle, il Doubs scorre pigramente in mezzo ai prati, sorvegliato dagli occhi languidi delle mucche al pascolo. Nessun altro rumore se non il clang clang metallico dei campanacci, in cui si intrufolano, nei pochi attimi insonori, lontani richiami d’uccelli e qualche splash di trota, che interrompe con un tuffo l’immobilità dell’acqua.
Sul ponte di Hauterive, rimango incantato a contemplare quello straordinario paesaggio. Il Doubs sembra non avere nessuna intenzione di allontanarsi da qui, abbandona ogni velleità di fiume e si finge stagno, ora melmoso e verdognolo per lo strisciare delle alghe, ora chiaro e cristallino come la più pura sorgente.
Tutt’attorno, il verde. Per niente monotono, ma animato da una vegetazione varia, che forma un susseguirsi di piani scenografici diversi e sovrapposti. Dietro l’ultimo, spunta la sagoma tozza del campanile dell’abbazia di Montbenoît, che sembra fare un tutt’uno con la manciata di case, che gli stanno attorno.
Nei primi decenni del 1100, Landry, signore di Joux, dona all’arcivescovo di Besançon la valle selvaggia e incolta in cui scorre il Doubs, con il proposito di erigervi un monastero per riscattare i peccati dei suoi avi.
A quei tempi l’area è deserta e completamente ricoperta di foreste; per dissodare i terreni e costruire gli edifici, Landry e i suoi successori fanno capo a una colonia composita di contadini e artigiani.
Sono essenzialmente Savoiardi e Svizzeri dei cantoni del Vallese e dei Grigioni, che portano con sé la loro lingua e le loro tradizioni, le cui tracce si scoprono qua e là ancora ai giorni nostri.
I nuovi venuti iniziano edificando una chiesa sul posto dove, alla fine dell’XI esimo secolo, si era ritirato l’eremita Benoît, e dando vita tutt’attorno ad undici villaggi.
Da Saint Maurice, in Vallese, arriva una comunità di una ventina di frati agostiniani, che costruiscono le parti comuni di quella che diventerà l’Abbazia di Montbenoît: il chiostro, la cucina, i refettori e i dormitori, mentre l’imponente chiesa abbaziale, sarà realizzata più tardi.
La Via dei Monaci finisce qui, davanti a questo monumento sorprendente, l’unico insieme religioso di tale importanza dell’Alto Doubs. Una costruzione straordinaria per la varietà di stili, che si sviluppano in un accostamento armonioso di elementi romanici, gotici e rinascimentali, su su fino al neogotico della torre campanaria, ricostruita nel 1903, dopo il crollo di quella originaria in stile romanico.
Un monumento impressionante anche per le dimensioni, tanto enormi per un villaggio di 400 anime, da farmi pensare che i signori di Joux dovevano avere un buon numero di peccati da farsi perdonare.
Note
1 Il giorno dell’inaugurazione, Nicolas e i membri dell’Association de la Vy aux Moines si presentano vestiti da fraticelli benedettini. Da allora, tra di loro si chiamano, scherzosamente, frères, frati.
2 Dopo la Riforma, il Priorato è secolarizzato e diventa residenza dell’esattore delle tasse del principe di Neuchâtel. La chiesa è trasformata in deposito delle decime, le imposte in natura. Oggi gli edifici conventuali sono la sede della Maison Mauler, che vi si è insidiata nel 1829 e sfrutta le oscure e fresche cantine del monastero per l’invecchiamento dei suoi vini spumanti.
3 All’epoca Neuchâtel non era ancora un cantone svizzero, ma un principato dipendente dal 1707 dal re di Prussia.
4 Qualche anno fa, è stato inaugurato il Sentier des bornes, un sentiero che segue la linea di confine, dal cippo numero 13 a quello segnato con il 94. È un percorso facile, adatto alle famiglie, lungo, nella sua interezza, poco meno di 15 chilometri. (http://www.neuchateltourisme.ch/download/panneau_150_100cm_2015.pdf)
5 Il tuyé è stato salvaguardato in numerose vecchie fattorie, anche dopo la loro ristrutturazione. Chi è interessato può visitare il Tuyé de Papy Baby nel villaggio di Gilley, a una decina di chilometri da Montbenoît.
È una struttura impressionante, a forma piramidale, alta 18 metri, in cui sono appese, su tre livelli, fino a 11 tonnellate di carne da affumicare, un’operazione che vien fatta di notte. Al centro del tuyé c’è un grande «braciere» in cui si accende il fuoco. Qui si produce, in particolare, la salsiccia di Morteau, protetta dal marchio IGP, le cui direttive impongono, per l’affumicatura, l’uso della sola legna di pino, di abete rosso e di ginepro.
(https://www.tuye-papygaby.com)