L'itinerario

Itinerario

Partenza: Salay  1’766 msm

Arrivo: lingua del ghiacciaio del Mont Miné   2'200 msm 

Dislivello totale in salita:   434 m

Dilslivello totale in discesa:    434 m

Lunghezza del percorso: ca 5 km

Tempo di percorrenza:  2h 20’  (con soste) 

Difficoltà:   T2

 

Itinerario facile, adatto a tutti (anche a famiglie con bambini). praticabile da giugno a ottobre.

Salendo lungo la Val d’Hérens, dopo Evolène e Les Haudères, una stradina di montagna porta a Salay, passando da La Forclaz.

Il viaggio fino a Les Haudères si può anche fare con i mezzi pubblici. Bisogna però contare ulteriori 4 km di cammino (ca 1h 30’) e 330 m di dislivello.  

La variante fino alla capanna/albergo della Bricola è più ripida e impegnativa, ma esente da particolari difficoltà.

Partenza a quota 1'947 msm

Arrivo alla Bricola 2'415 msm

Dislivello in salita:   468 m

Lunghezza del percorso:   ca 3 km

Tempo di percorrenza:  ca 2h

Difficoltà:    T2

 

 

 

 

 


La scoperta del bosco millenario

Un’escursione nella valle di Ferpècle, in Vallese, sulle tracce dei fenomeni all’origine del suo paesaggio
/ 29.10.2018
di Romano Venziani, testo e immagini

Con un ampio gesto del braccio, Cherubino scopre la tela, lasciando scivolare a terra il panno biancosporco che la ricopriva.

Rimane per un momento pensoso a osservare il dipinto e poi inizia a spremere i colori sulla tavolozza. Ne bastano pochi per gli ultimi ritocchi, il giallo di cromo, il blu oltremare, la terra di Siena, il bianco di zinco, che è solito miscelare con la biacca per dargli maggiore elasticità.

Il quadro può dirsi completato, ma lui vuole ancora aggiungere qualche pennellata per attenuarne le ombre e far vibrare i riverberi di luce.

È un’opera di enormi dimensioni, la più grande che abbia mai realizzato, alta un metro e settanta per due metri e mezzo di lunghezza, cinquanta centimetri in più del già considerevole Hiver jurassien, dipinto due anni prima, nel 1885. 

In quell’anno, Cherubino Patà, pittore paesaggista verzaschese (suoi gli affreschi della chiesa di Santa Maria Lauretana di Sonogno, edificata tra il 1852 e il 1854) amico e collaboratore di Gustave Courbet, da Parigi è tornato a vivere in Svizzera, a La-Chaux-de-Fonds, da dove parte per le sue peregrinazioni pittoriche in Romandia, a cui si rifanno numerose sue tele, che ritraggono soprattutto paesaggi giurassiani e vallesani. Come questa, una delle ultime realizzate prima del suo definitivo rientro in Ticino.

Sa già come chiamarlo, il grande dipinto, Cherubino, La Dent Blanche, dal nome della vetta che spicca sullo sfondo, sovrapposta a un cielo color pervinca e attorniata da altre cime ricoperte di neve, uno dei suoi elementi preferiti.

È una veduta della magica e selvaggia valle di Ferpècle, una propaggine della Val d’Hérens, che qui si esaurisce penetrando profondamente tra le montagne, per poi scontrarsi contro un muro di rocce e di ghiaccio. In primo piano, un nucleo di cascinali (Sépey?) appoggiati sul verde già autunnale dei prati. Una mulattiera risale la vallata, affiancata da altre costruzioni alpestri, che lassù in cima si raggrumano in un ultimo e lontano nucleo montano, Salay, sovrastato da un immane ammasso di ghiaccio: i ghiacciai del Mont Miné e di Ferpècle fusi in un’unica e imponente colata, che incombe come una solida minaccia sulle vecchie costruzioni.

Per tutto l’Ottocento, i contadini si chiedevano se l’estate seguente avrebbero potuto condurre ancora le mucche fin quassù, tanto che si è pensato addirittura di spostare a valle le cascine dell’alpeggio – mi racconta Jean-Claude Praz, che mi accompagna nella mia prima escursione in questo splendido lembo di Vallese. Jean-Claude è stato direttore del museo di storia naturale di Sion, è un appassionato di botanica e un acuto osservatore dei fenomeni di una natura in perenne trasformazione e dei processi con cui l’uomo ne condiziona l’evoluzione.

Tra il XIV secolo e la metà del XIX, a causa dell’abbassamento della temperatura media del nostro pianeta, i giganti delle Alpi si rimettono in cammino, spingendo la loro mole giù verso i fondovalle. Quella manciata di secoli è stata denominata Piccola età glaciale e il fenomeno alla sua origine non risparmia i ghiacciai di Ferpècle e del Mont Miné. Originati da una zona di alimentazione comune, che si estende dalla Dent Blanche fino alla Tête Blanche, i due ghiacciai, separati da un nero massiccio roccioso simile a una piramide, il Mont Miné, scivolano verso la pianura sottostante, sommergendola con una sola e grande colata di ghiaccio.

La sua massima estensione, che arriva a incombere sui cascinali di Salay, viene registrata attorno al 1835. In quegli anni, lo testimonia un’incisione dell’epoca, la vallata di Ferpècle è sepolta da una coltre bianca spessa oltre 200 metri.

Quando Cherubino dipinge il grande quadro della Dent Blanche, la Piccola età glaciale può però dirsi conclusa e i ghiacciai hanno iniziato a ritirarsi. Il loro fronte si è già allontanato dall’agglomerato montano, appollaiandosi su un gradino roccioso, e i contadini locali possono tirare un respiro di sollievo.

L’arretramento continuerà nei due secoli seguenti e oggi, i ghiacciai, ormai separatisi, si sono rifugiati lassù, in alto, nelle due rispettive valli. Quello del Mont Miné, meglio protetto dalla fusione, perché incassato in un solco rivolto a nord, fa capolino dall’alto delle rocce, con un fronte graffiato da una schiera di seracchi, da cui si staccano di tanto in tanto enormi blocchi di ghiaccio, che precipitano con fragore di tuoni. Quello di Ferpècle, ridotto a ben poca cosa, dal basso non si vede più, fatta eccezione della parte più elevata, che ammanta il Wandfluehorn. 

Tornato di recente nella valle, mi sono inerpicato su un ripido sentiero bruciato dal sole, fino a raggiungere, in un mare di sudore, la Bricola, a 2415 metri di quota, una vecchia capanna/albergo costruita a fine 1800 dagli alpinisti inglesi, i quali vi salivano camminando sul ghiacciaio, che all’epoca ingombrava ancora la valle sottostante. Anche i pastori, che portavano le greggi di pecore sui pascoli alti, passavano di lì. D’altronde, già in epoca romana esisteva quassù una via, molto frequentata dai mulattieri, che collegava la Valle di Hérens con l’italiana Valpelline attraverso il Col des Bouquetins.

Dal pianoro dove sorge la Bricola riesco a vedere quel che resta del ghiacciaio di Ferpècle, incastonato nel solco profondo tra le montagne.

Nel corso degli anni, il torrente, che scorre sotto la coltre di ghiaccio, aveva scavato una cavità, il cui sprofondamento, nell’estate del 2015, era stato all’origine di un curioso ed enorme cratere al centro della lingua glaciale. Cratere che oggi non c’è più. Il ghiacciaio è arretrato intaccandone i margini, che sono collassati, formando un nuovo fronte, squarciato da profonde ferite nell’azzurro del ghiaccio. 

Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi risalendo la valle di Ferpècle è veramente straordinario. Boschi di conifere hanno colonizzato i pendii delle montagne, mentre i cascinali galleggiano su ampi pascoli punteggiati di fiori.

Dopo il nucleo di Salay, con l’Hotel du Col d’Hérens costruito a fine Ottocento, ecco lo scalino roccioso ritratto dal Patà quando era ancora oberato dal ghiaccio. Poco più su, un bacino artificiale cattura l’acqua della Borgne, che viene pompata fino alla Grande Dixence. Da lì in poi, ci s’inoltra nella cosiddetta zona periglaciale.

Liberata dal ghiaccio, la piana, modellata dall’azione discontinua del gelo e dell’acqua di fusione, si sta ricoprendo di vegetazione, essenzialmente larici, ontani e qualche betulla, e il torrente, non ancora risucchiato dal bacino di pompaggio, rumoreggia scorrendo impetuoso tra i sassi.

Mi rendo conto che spesso lo si guarda con un occhio distratto, il paesaggio, e non si pensa a quali e a quanti fenomeni hanno contribuito alla sua formazione. Suggestionato dalla straordinaria capacità evocativa del racconto di Jean-Claude, mi ritrovo a immaginare questo posto 200 anni fa, quando sopra le nostre teste ci sarebbe stata una coltre di ghiaccio spessa centinaia di metri. Ad aiutarmi in questo esercizio d’immaginazione, i resti della morena storica, una linea tormentata di ghiaia e di sassi in precario equilibrio, che traccia sui pendii della montagna l’altezza massima raggiunta dalla lingua di ghiaccio.

Attorno a noi i larici, che crescono sul materiale alluvionale, svettano già alti sopra robusti cespugli di ontano. «La vegetazione prende piede rapidamente – spiega Jean-Claude – e circa trent’anni dopo la scomparsa del ghiaccio cominciano ad apparire le prime piante. Rimangono estremamente piccole durante uno o due decenni e poi, improvvisamente, crescono più in fretta».

Dopo poche centinaia di metri, il paesaggio è sensibilmente cambiato e ci ritroviamo a camminare in un territorio selvaggio e primordiale. La vegetazione si è fatta più rada e non supera il metro d’altezza. Sembrerebbero pianticelle giovani, ma ripensando alle spiegazioni di Jean-Claude, valuto che dovrebbero già avere venti o trent’anni. 

Siamo a poco meno di un chilometro dall’attuale fronte del ghiacciaio del Mont Miné, che, ritirandosi, ha lasciato dietro di sé una congerie di sassi e lo specchio opalino di un lago, che si allarga pacifico nella piana sabbiosa inondata di sole e di quiete.

Il terreno, all’apparenza arido e infecondo, si sta trasformando ricoprendosi di minuscoli cespugli e macchie colorate di fiori: cuscinetti rosa di silene, il giallo della Sassifraga cigliata, il violetto macchiato d’arancio della Linaria alpina o quello tremulo dell’Astro alpino.

«Siamo in presenza di circa 40-50 specie di piante e c’è un rapido aumento della diversità» continua l’appassionato Jean-Claude Praz. «La “vegetazione pioniera” colonizza i terreni nudi e sterili e, a poco a poco, li arricchisce depositandovi materia organica e intessendovi una fitta rete di radici. È l’inizio della formazione del suolo, che può impiegare anche diversi secoli prima di accogliere una vegetazione stabile e solida».

Abbiamo quasi raggiunto il fronte del ghiacciaio.

Dall’alto, una cascata precipita nella cosiddetta «zona di ablazione», una lingua di ghiaccio nera di terriccio e di sassi, che libera l’acqua di fusione, formando un torrente via via più impetuoso, che scorre assordante tra le rocce lisciate da una secolare azione di erosione.

Sul suo letto, conficcati nel pietrame, scopro grossi tronchi levigati dall’irruenza del fiume.

Alberi! Che ci fanno quassù, nel mezzo di questo deserto alpino?

«Qui ci sono stati periodi durante i quali il clima era nettamente più caldo di adesso e la valle, circa 6-7mila anni fa, era ricoperta da una foresta di grandi alberi millenari» mi spiega Jean-Claude.

Con il successivo raffreddamento, il ghiacciaio si è allungato e gonfiato, seppellendo gli alberi, e ora, con l’aumento della temperatura, li sputa fuori dalla sua pancia, lasciandoli lì al sole, come ossa spolpate da un gigantesco animale.

Qualche tronco mostra le tracce dei tagli praticati dagli studiosi di dendrocronologia, per determinarne l’età e il succedersi dei cicli climatici avvenuti migliaia di anni fa, prima che il ghiaccio sommergesse la valle. Quel ghiaccio che tra pochi decenni, probabilmente, non ci sarà più.

È impressionante pensare che, durante alcuni periodi, qui c’erano rigogliose foreste di alberi giganti e millenari, di cui rimangono solo questi sorprendenti e muti testimoni di ere lontane.

«Oggi i cambiamenti climatici sono veloci – continua Praz – e i ghiacciai, sotto l’azione del surriscaldamento, si stanno sciogliendo rapidamente. Per l’essere umano ci possono essere anche degli aspetti positivi, quali l’aumento della produttività dei terreni e del benessere, a condizione che ci sia un buon equilibrio tra le precipitazioni e la temperatura. È chiaro che l’umanità dovrà affrontare problemi via via più gravi, ma gli uomini sono sempre stati colpiti da queste mutate condizioni climatiche, a volte in modo estremamente violento. Oggi l’umanità è consapevole che il clima si riscalda in parte a causa delle nostre attività industriali e che le conseguenze toccheranno soprattutto i grandi agglomerati in riva ai mari, con la virulenza dei fenomeni meteorologici, delle tempeste e dei temporali. Relativizzo un po’– conclude, pragmatico, Jean-Claude – perché, in ogni caso, nei tempi storici, a parte qualche eccezione, la sofferenza degli uomini è dovuta essenzialmente alle guerre e alla violenza tra le società umane, molto più gravi finora dei fenomeni naturali».