L'itinerario

Partenza:  Monti di Motti  (1’062 msm)

Ai Monti di Motti si arriva con la strada carrozzabile, che sale da Cugnasco o da Gordola.

Lasciato il nucleo a piedi si continua lungo la strada per circa un chilometro, fino a quota 1'139 msm, dove  s’incontra il sentiero che sale in uno splendido bosco di faggi, passando dai Monti della Scesa (1’279 msm). Dopo altri 200 metri di dislivello ecco l’Alpe di Foppiana (1'495 msm), un ampio pianoro con i due rustici abbandonati immersi in un mare ondeggiante di alte erbe.

Da lì il sentiero continua nel fitto bosco di conifere della piantagione del Carcale e, dopo un inizio tranquillo, sale ripido fino a raggiungere il crinale della montagna, dove la vista spazia sulla Valle Verzasca e la Valle della Porta. Si prosegue su un falsopiano costeggiando il muro per poi scendere e trovarsi alla base del Sassariente. In pochi minuti si raggiunge la croce della vetta.

Arrivo:  Cima del Sassariente  (1’767 msm) 
Dislivello totale in salita:  705  metri
Lunghezza del percorso: ca. 12 km (andata e ritorno)
Tempo di percorrenza: ca. 3 ore 

Difficoltà: T2/T4  (l’ultimo tratto di sentiero, che sale alla vetta, è segnato in blu-bianbo-blu, come sentiero alpino. Bisogna prestare attenzione, ma, se non si soffre eccessivamente di vertigini, tutti possono raggiungere la cima senza problemi).

 

 

 

 


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La paternità del muro

Un’escursione al Sassariente sulle orme di alcune pagine della nostra storia
/ 06.01.2020
di Romano Venziani, testo e immagini

Qualcuno se la ricorda ancora quella notte, a Goumois. È la vigilia dell’estate e una luna paffuta ondeggia sull’acqua scura del Doubs, che ne cattura i bagliori scivolando via tranquilla sotto le arcate del vecchio ponte. Il fiume lì fa da confine, al di qua il Giura svizzero, di là la Francia. E la guerra.

All’improvviso, la valle risuona di un rumore sordo, che si gonfia, cresce d’intensità, rotola verso il villaggio, quasi fosse una repentina piena del fiume o il precipitare di una frana. La paura sale tra gli abitanti di Goumois, i quali, così come tutta la gente che vive a ridosso della frontiera, da settimane sono in apprensione per quello che succede a occidente, oltre le colline. Le truppe della Wehrmacht hanno invaso la Francia, Parigi è occupata da quattro giorni e la guerra si è fatta sempre più vicina.

Anche il rumore si rafforza e in quel frastuono ora si possono riconoscere suoni ben distinti, il vociare di persone, il rombo di motori, lo scalpitare di zoccoli. Poi, tra le case, all’imbocco del ponte, il buio genera le prime figure, che avanzano incolonnate.

Sono soldati, migliaia di soldati, che camminano stancamente trascinando le armi, e poi autocarri, cannoni, centinaia di cavalli.

È la notte tra il 19 e il 20 giugno del 1940 e la fiumana di uomini e mezzi che attraversa il Doubs è quello che resta del 45° Corpo d’armata francese, agli ordini del Generale Daille: 30mila soldati, a cui si sono uniti più di 12mila fanti della 2a Divisione polacca comandata dal Generale Bronislaw Prugar-Ketling. Con loro anche numerosi spahi marocchini, che combattono per la Francia in sella a cavalli arabi, e circa 7mila civili.

L’esercito in rotta, incalzato dalle forze corazzate tedesche, cerca rifugio in Svizzera e i militari in entrata, accolti con simpatia dalla gente del posto profondamente francofila, vengono disarmati e alloggiati, nel rispetto delle Convenzioni dell’Aia, in campi d’internamento provvisori. In quei giorni, altre migliaia di disperati passeranno la frontiera per sfuggire al nemico.

I Francesi sono rimpatriati l’anno seguente, i Polacchi, invece, rimarranno nel nostro paese fino alla fine della guerra. Distribuiti nei vari cantoni, non se ne staranno con le mani in mano. L’inaspettata forza lavoro sarà impiegata in numerose opere d’interesse pubblico, strade, sentieri, acquedotti, muri a secco, bonifiche di terreni agricoli, pulizia di pascoli, estensione delle superfici coltivabili.

Oggi ancora, in Ticino, come in tutta la Svizzera, ci si può imbattere nelle opere di quelle migliaia di internati polacchi, la cui presenza è ricordata da alcuni musei (ad esempio il Polenmuseum di Rapperswil) e, qua e là, da iscrizioni e targhe commemorative.

A volte, però, a quei soldati venuti da lontano, la memoria collettiva attribuisce di tutto. Basta che uno chieda: Chissà chi l’ha fatta, quella strada? Chi ha tirato su quel muro? Se non hai lì qualcuno pronto a giurarti che, l’ho fatto io, finisci per sentenziare convinto: è opera dei Polacchi!

E così è stato anche per la muraglia che ti si para davanti sul sentiero, poco prima della cima del Sassariente. Arrivi lì, sbuffando per la ripida salita e, mentre distendi il passo nel breve spazio di falsopiano, appena distogli lo sguardo dallo splendido panorama che ti regalano la Valle della Porta e le vette della Verzasca, la vedi. O, almeno, incominci a vederne una parte, avvolta com’è dalla vegetazione. Alla prima occhiata, non è così impressionante come quella del pizzo Bombögn, in Valle di Campo (vedi «Azione» del 10 luglio 2017). Il muro è meno alto e appariscente, ma, seguendolo per un po’, quando il bosco si dirada, resti sorpreso dalla sua lunghezza. Serpeggia per più di un chilometro, cavalcando la cresta della montagna, dalla Forcarella su su fino alla Cima di Sassello.

L’hanno sempre chiamato «il muro dei Polacchi», ma sarà poi vero che a costruirlo sono stati proprio loro?, mi ero chiesto qualche anno fa passando di lì. Le analogie con quello del Pizzo Bombögn mi avevano insinuato il dubbio, poi, guardandolo bene, avevo scoperto una pietra e su quella pietra una data: 1949.

Vuoi vedere che l’hanno costruita in quell’anno, la muraglia? Ma allora i Polacchi se n’erano già andati.

Non che fosse una questione di vitale importanza, ma pungolato dalla curiosità ero andato a scartabellare documenti nell’archivio della Sezione forestale cantonale. E così mi son trovato tra le mani la ricevuta di una fattura, datata 1950, relativa alla costruzione di una «recinzione a muro di 1150 metri» nella zona del Sassariente. Se poi ce ne fosse stato ancora bisogno, un’ulteriore conferma me l’aveva data Michele Peverelli, forestale, il cui suocero, Luigi Terzi, raccontava che, allora, andava su a portar da bere agli operai, che avevano costruito il muro, un paio di muratori vigezzini o cannobini con una squadra di manovali assunti da una ditta di Gordola.

Si racconta pure che i muratori, liberi la domenica, santificassero la giornata andando a costruir cascine sui monti della zona. Tanto per riposare un po’…

Fatto sta che il muro è lì da vedere ed è ancora ben conservato, finito con le pietre sporgenti per impedire alle capre di oltrepassarlo. Sì, perché il suo scopo era proprio quello, difendere dalla voracità degli animali i teneri germogli delle piantagioni del Carcale e della Pesta. Gli alberelli nel frattempo sono cresciuti e le capre, forse, qui non ci sono nemmeno più, così la muraglia oggi è utilizzata a mo’ di scalinata dagli escursionisti in cammino verso la cima di Sassello.

Vale la pena salire fin quassù anche solo per ammirare quest’insolita costruzione, quasi inconcepibile agli occhi di oggi, ma che, all’epoca (e sono poi trascorsi solo settant’anni), rappresentava un’opera estremamente funzionale a un’accurata gestione del territorio. Proteggere la crescita regolare di una piantagione significava (e significa) allontanare o, almeno, attenuare il pericolo di frane, valanghe e alluvioni.

E poi, lì vicino, c’è il Sassariente. Lo si scorge dappertutto, quel dentone, che si stacca dal profilo della montagna e punta il cielo punzecchiandolo con la sua croce. E a furia di guardarlo dal sotto in su, uno si decide a mettersi in marcia e a salire per toccarlo con mano.

È quanto hanno fatto, a fine Ottocento, «i signori Brandenberger e Burkhardt», a cui si deve la prima ascensione della vetta. Nel 1902, è la volta di cinque alpinisti della Sottosezione Leventina del CAS, che lasciano la descrizione dell’impresa: «la cima della montagna scende a picco da tutte le pareti: di particolare interesse è l’alta pelata della parete sud. La salita è difficile – scrivono – e ci vuole prudenza a causa della forte pendenza. Sulla cima non abbiamo trovato nessuna traccia, sotto la vetta c’era però un ometto di sassi. Sembrerebbe quindi che la cima non abbia ricevuto altre visite dopo la scalata dei signori Brandenberger e Burkhardt del 9 settembre 1894».

Anche la posa dell’alta croce, che sulla cima della piramide rocciosa sfida i fulmini da più di novant’anni, non è stata un’impresa da poco. L’idea l’aveva avuta nel 1925 don Giovanni Guggia, parroco di Gordola, sull’onda di quello spirito di cristianizzazione delle montagne, che spirava da un quarto di secolo su tutto l’arco alpino.

Otto quintali di ferro portati su a spalla dal piano, pezzo dopo pezzo, da una ventina di giovani dei circoli cattolici, a cui avevano dato man forte pastori, alpigiani, donne e ragazze dei monti sottostanti. «Avevo dieci anni – ricordava nel 1986 Enrico Badasci – partii dal paese con dieci chili di bulloni in spalla salendo a piedi ai Monti Motti. Lì qualcuno mi alleggerì di metà carico. Anche don Guggia partecipò in prima persona portando un brentino di acqua per il cemento della base. Sulla cima mi diede cinquanta centesimi di mancia».

Una volta arrivati a destinazione, i pezzi devono essere assemblati, ma i due operai incaricati dell’operazione hanno una spiacevole sorpresa: «la roccia che doveva servire da base al monumento – si legge sull’Eco di Locarno nell’anno del cinquantesimo – era ricoperta da un folto sciame di grosse formiche rosse alate; i verzaschesi che collaboravano con i due operai consigliarono di depositare i pezzi metallici nelle vicinanze e di allontanarsi per evitare l’assalto della miriade di insetti». E così devono tornare qualche giorno dopo, quando le formiche si sono allontanate, per iniziare il lavoro di montaggio. Ma i guai non sono del tutto finiti. All’operazione partecipa anche Emilio Savoldi, un fabbro dall’aspetto mingherlino, che si lascia calare all’interno della croce «per meglio e più velocemente stringere i bulloni… Senonché, per l’entusiasmo del lavoro, non si pensò di far uscire il Savoldi, che rimase prigioniero all’interno della croce» e, per liberarlo, se ne dovettero smontare alcuni pezzi.

Finalmente, quel «simbolo di fede e d’elevazione» è inaugurato una domenica di settembre del 1926 con una cerimonia solenne e affollata e un don Guggia che sprizza tutti d’acqua santa, fustigando con l’aspersorio l’aria della cima già imbevuta dei primi sentori dell’autunno nonostante la giornata di sole.

Cerco di immaginarmi la cima, più pelata di adesso, con tutta quella gente che assiste alla messa. Mi chiedo come ci sono saliti lassù, in che modo si sono arrampicati su quelle rocce scoscese. Solo molto più tardi, per facilitarne l’ascensione, la cima del Sassariente sarà attrezzata con catene e corde fisse poi, nel 2009, l’Ente turistico di Tenero e Verzasca vi aggiungerà una passerella di legno con scalini, cordine metalliche e catene, rendendola accessibile a tutti… o quasi, a meno che non si soffra in modo smisurato di vertigini.

Dalla base dello sperone, adesso, in pochi minuti arrivi alla vetta e, una volta lì, seduto ai piedi della croce, il mondo si dispiega davanti agli occhi. L’orizzonte è tutto un ribollire di cime, quelle più seghettate, che sbucano dalle ultime propaggini del massiccio alpino, e quelle più dolci e sobrie delle Prealpi, dietro le quali s’intravvedono lembi annebbiati della pianura padana. Laggiù, poi, lo specchio magico del Verbano, che assume le tinte delle ore del giorno, delle stagioni e dei capricci del cielo. Infine, proprio ai tuoi piedi, il Piano di Magadino, sezionato per il lungo dal corso del Ticino, con la sua scoordinata geometria di campi, prati, serre e capannoni.

Mi chiedo che fine abbia fatto quello che sarebbe dovuto diventare, dopo la correzione del fiume, «il granaio del cantone». Mi ricordo ancora le parole di Emilio Molo, uno degli attori della bonifica negli anni della seconda guerra mondiale: «Il Piano di Magadino per me è quasi un bambino, che ho visto crescere gradualmente. Oggi però, guardandolo, mi rattristo, perché vedo che tutti vogliono insediarvi strade su strade e industrie, a detrimento della sua vera natura agricola. E questo mi fa soffrire, dico la verità, quando penso a ciò che hanno fatto i nostri antenati».

E anche i tanti internati polacchi, a cui non si deve, come si era sempre pensato, la paternità del muro del Sassariente, ma che hanno contribuito durante la guerra ai lavori di bonifica del Piano, trasformando vaste aree incolte in preziosa terra coltivabile.