Corso

Raccontare  il viaggio
Un nuovo laboratorio con Scuola Club Migros Lugano

Raccontare un viaggio ci permette di rivivere i momenti più importanti, quelli che resteranno, di dare ordine ai nostri ricordi, soprattutto di condividerli con altri. Ma non è facile. Molte volte, quando ci mettiamo alla prova, ci accorgiamo di destare noia piuttosto che interesse.

Per questo abbiamo creato un laboratorio unico nel suo genere perché dedicato all’arte di viaggiare. Attraverso una vivace e informale discussione guidata toccheremo diversi punti: come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa, come trasformare la nostra esperienza in un prodotto giornalistico…

L’insegnante è Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), conduttore radiofonico per Rete Due, docente universitario USI e curatore della nostra rubrica «Viaggiatori d’Occidente».

La scrittura è il filo conduttore del laboratorio (combinata con la fotografia nel reportage) con esercizi divertenti, adatti ai principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura.

È il corso perfetto per chi vuole imparare a raccontare le proprie avventure in forme coinvolgenti e appassionanti.

Informazioni
Il laboratorio si svolgerà sabato 16 novembre 2019, ore 9.00-12.00 e 13.00-16.00, presso la Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Il costo dell’iscrizione è di Fr. 144.– (con uno sconto del 10% a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione). Il corso è a numero chiuso (massimo 12 partecipanti, in ordine d’iscrizione sino a esaurimento dei posti disponibili). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano, per telefono (091 8217150), via posta elettronica (scuolaclub.lugano@migrosticino.ch) o direttamente sul sito internet (www.scuola-club.ch).


La montagna proibita

Viaggiatori d’Occidente - Dal 26 ottobre non è più possibile salire in cima a Uluru, il simbolo dell’Australia
/ 28.10.2019
di Claudio Visentin

Pochi giorni fa gli ultimi turisti sono saliti su Uluru (in inglese Ayers Rock), il gigantesco monolite rossastro di arenaria al centro dell’Australia, nel lembo meridionale del Territorio del Nord. Si arriva con un breve volo da Alice Springs, la città più vicina, a 450 chilometri; chi ha più tempo prende l’autobus attraversando in cinque ore lo sconfinato Outback e la boscaglia (Bush) di eucalipti. Verso la fine del viaggio, sull’orizzonte, compare la sagoma color ocra di Uluru: una formazione rocciosa alta solo 348 metri, ma in larga parte nascosta nel sottosuolo, con una circonferenza di circa dieci chilometri, vecchia almeno trecento milioni di anni. 

Si viene qui soprattutto per ammirare il massiccio all’alba e al tramonto, quando la roccia cambia continuamente colore al mutare della luce. Altri preferiscono invece salire in cima per ammirare il panorama intorno seguendo un sentiero attrezzato; ci vuole un’ora, con qualche pericolo se il sole batte o per la roccia scivolosa.

La comunità Anangu (significa «gente») abita da sempre questa zona e da tempo gli aborigeni chiedono alle «formiche» (così chiamano i turisti) di non calpestare il sacro suolo. Uluru infatti è la più importante testimonianza del Tempo del sogno (Dreamtime), quando il mondo era indifferenziato. Gigantesche creature totemiche in forma d’animali percorsero allora la terra cacciando e danzando, creando con il loro passaggio montagne, fiumi, praterie. In uno dei suoi libri più conosciuti, Le vie dei canti (The Songlines, 1987, in italiano per Adelphi) Bruce Chatwin mostrò come questi miti della creazione fossero stati tramandati in forma di canti, al tempo stesso descrizione del percorso di una creatura ancestrale e mappa di un territorio. Alla fine del Tempo del sogno ciascuna creatura si insediò in un luogo, prendendo la forma di un elemento naturale. In particolare a Uluru vive lo spirito di Tatji, la Lucertola rossa delle pianure. A Uluru, Tatji lanciò il suo boomerang nella roccia senza più riuscire a ritrovarlo nonostante tutti i tentativi, testimoniati dai numerosi buchi rotondi sulla superficie. Alla fine la lucertola rossa morì in una caverna di Uluru e alcuni grossi macigni sarebbero i resti del suo corpo.

Nel 1985 il governo australiano ha restituito Uluru agli aborigeni, sanando uno dei troppi torti loro inflitti in solo due secoli di storia di questo continente. La comunità ha subito chiesto ai turisti di non salire sulla vetta per rispetto alle credenze degli aborigeni. Per qualche tempo però ci si è affidati alla persuasione, esponendo dei cartelli dissuasori. Molti hanno accolto l’invito e il numero di chi ha continuato a salire è sceso dal 70 al 20 per cento. Ma il senso del sacro non si accontenta di buone percentuali: dal 26 ottobre 2019 dunque l’ascesa è proibita per tutti. 

Il primo effetto del nuovo provvedimento è stato paradossale. L’idea di non poter più scalare The Rock in questa vita ha attirato migliaia di turisti, esaurendo per mesi l’offerta degli alberghi della zona. Una fila ininterrotta si è dipanata lungo il fianco del massiccio roccioso come un gigantesco serpente.

Su Twitter si sono levate diverse voci di protesta contro il provvedimento. Qualcuno ha scritto: «Sono nato in Australia, Uluru fa parte della mia cultura e tradizione quanto quella di chiunque altro, ma io non vieto nessun luogo dicendo che è sacro o qualcosa del genere». Ovviamente gli si potrebbe rispondere che il sentimento religioso degli aborigeni è antico e consolidato generazione dopo generazione, insomma non è un capriccio. Tanto più ricordando che gli antenati degli australiani hanno sottratto la terra ai nativi con la forza, aprendo una crisi d’identità ancora lontana dalla sua soluzione. Ad Alice Springs per esempio è facile vedere gli aborigeni vagare per la strada scalzi e ubriachi.

Una domanda retorica più volte ripetuta è stata: «Perché le persone vi danno fastidio? Cos’hanno di sbagliato?». Niente, naturalmente. Ma anche senza scalare Uluru le attività non mancano: passeggiate in cammello, tour in Segway intorno alla base, percorsi a piedi, in bicicletta o in moto, persino paracadutismo, oltre a diversi eventi artistici e culturali. Anzi, come ha sottolineato il direttore generale del Parco nazionale di Uluru, Michael Misso, proprio la chiusura della salita potrebbe aiutare a mettere meglio a fuoco l’autentico significato di un luogo incluso nella celebre Lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. 

Altri critici hanno previsto una grossa perdita di guadagni causata da questo divieto: «Gli aborigeni stanno sparandosi sui piedi!». Ma così non è stato: da quando non si può più salire le prenotazioni dei visitatori non sono scese.