Aristomenes ha i capelli lunghi, lo sguardo veloce, beve birra lentamente e spara parole a raffica. E tutte dicono una sola cosa: orgoglio greco! L’orgoglio di una cultura antichissima e raffinatissima, la consapevolezza di essere la matrice culturale di mezzo mondo e di tante lingue. Lui parla un italiano fluente, perché a Bologna aveva un ristorante greco, ospite fisso era Umberto Eco, ma poi è tornato qui a Salonicco per aprire un bar italiano. Si fa così, dice. Anche se l’economia non è delle migliori, l’orgoglio greco ha chiamato: si torna e si fa ripartire questo Paese. E mentre la notte scorre fra chiacchiere e birre, si fa l’alba fra le vie della città, che ospita la più grande università di tutta la Grecia. Per questo i pub sono strapieni di studenti; non vi dico poi le discoteche, i locali alternativi, le piazze e il lungomare.
Città di giovani certo, ma anche un antichissimo porto negli anfratti di una costa lontana dalla Grecia turistica delle isole, delle casette bianche e delle taverne con ouzo e souvlaki. Salonicco è una città vera, vissuta, in salita e in discesa, stesa fra il mare e i colli; città di pescatori e operai, commercianti e armatori, industria e servizi. Stratificata, nelle architetture del ghetto ebraico, dal quale tutti fuggirono dopo il gigantesco incendio del 1917, e nei musei sulle tradizioni popolari, sullo sport, sulla lotta, sull’acqua perfino. Indecisa, fra gli ex depositi del porto trasformati in locali notturni per il tempo di un Martini o di un concerto jazz, e la monumentalità della Torre Bianca, che nel XV secolo fu il posto di guardia sul mare dei Giannizzeri, il corpo dei soldati scelti dei sultani ottomani formato da giovani cristiani.
È un luogo speciale, Salonicco, se lo si guarda oltre questa sua aria confusa, fatta di grandi palazzi moderni, traffico, splendide chiese bizantine (questa era la co-capitale del regno, accanto a Costantinopoli) e il viavai di navi dal porto. Non c’è statua, porta monumentale o basilica che non abbia sullo sfondo un condominio di otto piani con i panni stesi. Ma nemmeno è possibile posare lo sguardo da qualsiasi parte e non vedere una traccia di antico, una pietra, un nome, un segno della storia.
Qui passeggiò Aristotele, insegnando la filosofia ai suoi allievi, e qui predicò la buona novella San Paolo; da qui passa la via Egnatia (da Durazzo a Istanbul) che oggi è anche meta di un turismo lento, che sta riscoprendo i tempi dello sguardo e della riflessione nel conoscere i luoghi. Nei dintorni di Salonicco poi ci sono almeno due siti archeologici imperdibili: Pella, l’antica capitale del regno di Macedonia dove nacque Alessandro Magno, e Verghina, ancora più antica, con la straordinaria tomba di Filippo II, che fu scoperta negli anni 80 e solo oggi comincia a diventare meta di turismo straniero.
E oltre i Romani, i Bizantini e gli Ottomani, che hanno lasciato le loro impronte fra queste vie, qui gli ebrei, i musulmani e i cristiani hanno condiviso la terra, le regole e i commerci, perché questa è una terra di incontri, di incroci, di scambi. Oggi più che mai. Il flusso di stranieri che bussa alle porte di Salonicco infatti non si è fermato, ridisegnandone il volto culturale ed estetico. Arrivarci dalla Svizzera senza prendere l’aereo significa solcare l’Adriatico, cercare un autobus che attraversi tutta la Macedonia greca, al confine con l’Albania e la Bulgaria, e poi arrivare in questo angolo riparato del Mar Egeo, che guarda ad Atene e a Smirne, e che è il porto di approdo naturale per chi fugge dall’altra sponda. È una storia vecchia e nuova.
Qui dopo la Prima guerra mondiale giunsero migliaia di greci espulsi dalla Turchia nel 1922 in seguito alla guerra greco-turca. Per accogliere tutti Salonicco dovette creare nuovi quartieri e fu soprannominata «la capitale dei rifugiati» e «la madre dei poveri». Nel 2018 sono stati più di settemila i richiedenti asilo in città, in maggioranza afghani e iracheni, ma nel 2015 giunsero in Grecia ottocentocinquantamila persone in fuga dalla guerra siriana. E Salonicco era lì, era la porta.
Il governo cittadino ha dovuto trovare una vocazione, appoggiandosi sulla sua storia e su una certa predisposizione degli abitanti, qualcosa come uno spirito condiviso o chissà che: fatto sta che oggi la città è un modello di gestione e coordinamento dei flussi migratori, che si traduce in capacità di accoglienza. Certo le difficoltà ci sono ma si cerca di superarle partendo dallo studio delle lingue: prima la propria poi il greco.Qui è facile capire come la lingua sia l’elemento di base della costruzione identitaria, sia quella di origine, che mi ricorda da dove vengo, sia quella di approdo, che mi dice dove sto andando.
La lingua è lo strumento del viaggio, della conoscenza e dell’apertura, così come quello della tradizione e della conservazione del sapere; la lingua come avanguardia dei popoli e come cassaforte dei popoli. Forse è anche per questo che Aristomenes tiene così tanto alla sua lingua, alle parole del greco antico, che hanno forgiato quelle latine e quelle di molte lingue europee: forgiando le parole forgi i concetti, le idee. Eccolo l’orgoglio greco: essere consapevolmente alla base di un mondo più unito, ma in dialogo.