(Foto di David Monniaux)

CSF (come si fa)

I ravioli li amo. Quelli di carne anche di più. Se sono in vena, faccio questa ricetta piemontese per un super ripieno. Vediamo come si fa.

Per 12 mangioni: 1 kg di reale di manzo, 2 bottiglie di vino rosso, 4 cipolle, 1,5 kg di carote e sedano, 1 mazzetto di alloro, rosmarino, timo, 1 bouquet garni di garza (contenente una stecca di cannella, 4 chiodi di garofano, 1 cucchiaino di bacche di ginepro e uno di pepe in grani), zucchero, noce moscata, farina, lardo, 3 spicchi di aglio, rosmarino, olio di oliva, sale e pepe.

Massaggiate la carne con sale, pepe e poco zucchero. Mondate e spezzettate le verdure. Mettete carne e verdure in un contenitore e ricoprite con il vino. Lasciate marinare per 24 ore in frigorifero, poi scolate la carne e asciugatela. Infarinatela e fatela rosolare con poco olio e una fetta spessa di lardo finché non sarà completamente abbrustolita. Negli ultimi minuti aggiungete l’aglio e 1 rametto di rosmarino. Eliminate quel che resta del lardo, l’aglio e il rosmarino, levate la carne e tenetela in caldo. Unite nella casseruola le verdure scolate dal vino e rosolatele. Rimettete la carne, aggiungete il vino della marinatura e il bouquet di spezie.
Coprite e cuocete a fiamma bassissima per 3 ore, rigirando di tanto in tanto e aggiungendo se necessario brodo vegetale. Nell’ultima mezz’ora eliminate le spezie e mettete il mazzetto aromatico, che così cederà i suoi profumi senza disfarsi né rilasciare l’amaro.
Levate la carne e fatela raffreddare; fate ridurre il liquido di cottura, eliminate le erbe, raffreddatelo, sgrassatelo con un cucchiaio e frullatelo con le verdure.
Su un tagliere sbriciolate la carne al coltello. Mettetela in una bastardella, aggiungete la purea di verdure e il fondo di cottura, grattugiate la noce moscata e regolate di sale. Mettete il ripieno in una tasca da pasticciere e riponetelo in frigorifero finché il collagene del reale non avrà reso il ripieno tirato ma ancora cremoso.


La cucina è un’arte?

Ecco che cosa accomuna la preparazione di un piatto e la progettazione di un edificio architettonico
/ 24.04.2017
di Allan Bay

Sono giornalista e autore di libri di cucina. Quindi sono sempre in giro per l’Italia a presentare libri, miei o di altri, ma anche a dare lezioni di cucina: una cosa che mi diverte tantissimo, perché il saper spadellare è stato, è e sempre sarà, la base del pensiero gastronomico. 

Nei tanti incontri che ho avuto in questi anni ho sempre amato dialogare con chi mi ascoltava con un interesse partecipativo, che è il modo migliore per rendersi utili agli altri. Quindi tante domande, di tutti i tipi, alle quali ho sempre cercato di farmi trovare pronto a rispondere.

L’esperienza mi ha insegnato che prima o poi, alla fine, viene sempre fuori una domanda: «Ma la cucina è un’arte?». Il più delle volte è sottointesa «l’alta cucina», ma a volte si parla di tutti gli insiemi di fenomeni che chiamiamo «cucina».

La mia risposta è sempre immediata: no, non è un’arte. Né è bene mescolarla ad altre forme di espressione artistica. È molto di più: è una forma di cultura superiore. Esatto: è superiore a tutte le altre, o quasi, per un motivo ben preciso. Intellettuali e scrittori possono permettersi – certo non sempre, ma concedetemi di generalizzare – di dribblare il mondo al quale appartengono, di non affrontare un confronto diretto e in qualche modo decisivo per le loro opere, per il loro pensiero. Tutto viene riversato in un libro, e l’unica sfida è trovare un editore che lo pubblichi, e prima o poi lo si trova. 

Una partitura deve trovare il suo esecutore, e prima o poi lo si trova. Ma le storie, le riflessioni, le musiche si riescono a concepire anche nel chiuso di un microcosmo, nello spazio, più o meno difeso, della propria interiorità. Sarà poi il destino, che non è mai cinico e baro, a collocare le creazioni dell’ingegno nella giusta posizione.

Ben diverse sono le discipline dove da subito devi confrontarti col tuo mondo. Penso all’architettura, in cui devi convincere un committente e le autorità preposte – parlo di edifici costruiti, non di progetti. Penso appunto alla cucina, dove hai voglia di progettare e costruire fughe in avanti, ma devi poi confrontarti, giorno dopo giorno, con un pubblico difficile, spesso competente quanto te. 

Devi convincerlo che vale la pena di spendere una cifra che è generalmente molto superiore al costo di un romanzo per godere dei piatti che hai preparato. Se la fuga in avanti è eccessiva, rischi la stroncatura, e giustamente. Se è insufficiente, finisci nel dimenticatoio. Se invece riesci a entrare in sintonia con il pubblico, stando un passo, non di più, davanti a lui, allora hai successo, quello vero. Riuscendo magari alla fine a influire – modificare è una parola eccessiva – su quell’immenso pachiderma inamovibile che è la cultura legata al cibo e al modello di gusto che ne consegue. 

Ma questo è un merito che condividi con il tuo pubblico, solo questa sintonia ti permette di diventare qualcuno. Ed è proprio questa condivisione – meglio: la lotta per questa condivisione – che rende la cucina una forma superiore di cultura.

Poi, una cosa va detta: l’arte per definizione non è riproducibile; se ridipingi la Monna Lisa fai un esercizio manuale forse utile a te ma culturalmente nullo. Invece un piatto che hai assaggiato o di cui hai la ricetta, puoi tranquillamente rifarlo, riprodurlo, anche cercare di migliorarlo. Ma questo è un lavoro tipico non dell’arte ma dell’artigianato. Sì, la cucina è una forma di artigianato. Alto, medio o anche basso, ma sempre artigianato.