Il mondo non è poi così grande. Dopo tutto, gli Stati sono solo poco più di 200: 196 di loro sono riconosciuti a livello internazionale come Stati sovrani mentre altri – una decina – faticano a ottenere qualunque riconoscimento. Siete mai stati in: Artsakh, Repubblica popolare di Doneck, Repubblica popolare di Lugansk, Somaliland, Transnistria? Conosco la risposta.
Proprio perché gli Stati del mondo non sono poi molti, qualcuno è riuscito a visitarli tutti. Per esempio il giornalista americano Albert Podell, nell’arco di mezzo secolo di viaggi. Strada facendo ha avuto qualche guaio – in Marocco ha parcheggiato nel mezzo di un campo minato – ma giustamente sostiene che «più vanno male le cose, più belle saranno le storie che racconterai». Ancora meglio ha fatto il danese Henrik Jeppesen: nel 1996, a soli 28 anni d’età, è diventato il più giovane membro del «Club dei 196», esclusivo ritrovo di collezionisti di Stati e timbri sul passaporto. Forse l’uomo che ha viaggiato di più al mondo è Don Parrish, settantenne di Chicago: è stato infatti in tutti i 325 territori sulla lista del Travellers’ Century Club (i soci devono aver visitato almeno 100 Paesi, 19 di loro sono stati in ogni angolo della terra). Gli vogliamo bene anche soltanto perché ha fatto una capatina in tutti e 26 i nostri cantoni.
Ma l’eroe di ogni impiegato è un norvegese sulla quarantina, Gunnar Garfors: in meno di dieci anni ha visitato 198 Paesi senza perdere il posto di lavoro fisso. Il vero primato qui è spremere il massimo dalle cinque settimane di vacanza all’anno disponibili in Norvegia (più due settimane di festività nazionali). Servono imprese titaniche (e un poco fantozziane): Gunnar Garfors sostiene per esempio di aver visitato 19 Paesi in un sol giorno: Grecia, Bulgaria, Kosovo, Macedonia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Croazia, Austria, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Svizzera e Liechtenstein. Se sono le cinque, questa dev’essere l’Olanda...
Chi ha propositi meno ambiziosi deve inevitabilmente fare delle scelte ed è interessante considerare i continui cambiamenti nella fortuna dei diversi Paesi. Nell’ultimo quarto di secolo, dal 1990 al 2016, gli arrivi internazionali sono passati da 439,5 milioni a 1,3 miliardi. Il loro numero è triplicato, ma soprattutto i turisti si sono distribuiti in modo diverso.
La novità più importante, di lungo periodo, è la continua ascesa dell’Asia nel «secolo cinese». Nel 1950 gli arrivi internazionali erano solo 25 milioni e il 66 per cento si dirigeva verso l’Europa, il centro del turismo mondiale. L’Asia contava allora per meno dell’1 per cento. Oggi la metà dei turisti sceglie ancora l’Europa ma Asia e Pacifico sono saliti a un quarto della quota di mercato. La Cina è quarta per arrivi internazionali (dopo Francia, Stati Uniti e Spagna) e non nasconde di mirare al primo posto. Anche Australia e Nuova Zelanda da qualche anno sono molto apprezzate, specie tra i giovani, sia per la cultura popolare (il set del Signore degli anelli) sia per un mercato del lavoro dinamico.
In questa parte di mondo nessuno ha però registrato una crescita pari a quella della Cambogia. Nel 1990, dopo il genocidio compiuto dai Khmer rossi e la guerra col Vietnam, solo 17mila turisti internazionali visitavano il Paese; nel 2016 sono stati 5 milioni (i dati sono dell’Organizzazione mondiale del turismo), anche se la maggior parte si limita agli spettacolari templi di Angkor Wat, magari nell’ambito di una gita dalla vicina Thailandia.
Con ritmi assai sostenuti crescono anche Birmania/Myanmar (da 21mila nel 1990 a 2,9 milioni nel 2016), Laos (da 14mila a 3,3 milioni) e Vietnam, le nuove destinazioni di tendenza per i viaggiatori zaino in spalla (backpacker).
Dopo il sud-est asiatico, i viaggiatori più intraprendenti e curiosi – gli apripista del turismo internazionale – già guardano verso l’America centrale (assai popolare anche per ragioni ideologiche qualche decennio fa) oppure gli Stati nati dalle rovine dell’Unione sovietica in Asia centrale, lungo l’antica Via della seta: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan.
Insomma il panorama delle destinazioni è in continuo movimento e basta poco per rimescolare le carte, a cominciare dalla politica internazionale. L’Ungheria ebbe un momento di gloria nel 1989 – quinto Paese più visitato al mondo – con la caduta del Muro, perché fu il primo ad aprire i suoi confini all’Occidente. Ma è stata poi quasi dimenticata, complice anche una lingua decisamente ostica. La Siria accoglieva 8,5 milioni di turisti nel 2010, oggi si dibatte nella guerra civile. Gli Stati Uniti dopo l’elezione di Trump (il cosiddetto «Trump Slump») hanno perso 3,5 milioni di turisti internazionali e qualcuno se lo sarà preso il vicino canadese. Anche i media sono sempre più influenti: per esempio la piccola Islanda riceveva solo 140mila visitatori nel 1990, nel 2017 sono stati 2 milioni grazie alla popolare serie televisiva Trono di spade.
E la Svizzera? La prima destinazione del pianeta, dove il turismo internazionale fu scoperto e brevettato, nel 1990 si affacciava ai piani nobili della classifica con l’undicesimo posto. Ora è molto più in basso, al trentacinquesimo, con quasi tre milioni di turisti in meno. Ma è inevitabile, considerate le dimensioni del Paese e il peso dei concorrenti, e forse non dovremmo neppure preoccuparci troppo. Dopo tutto questa gara senza sosta per il primato è anche assai faticosa: e allora perché non ritagliarsi una confortevole nicchia di mercato curando gli equilibri tra entrate turistiche, sostenibilità ambientale e qualità della vita?