Immagini d’Africa

Reportage - Un confronto tra fotografo e giornalista che, per una volta, non camminano insieme, ma vanno ciascuno alla ricerca delle proprie emozioni
/ 12.03.2018
di Fredy Franzoni

«Les etoile brillent de leur boté» sta scritto in un francese approssimativo su un muro di Bamako, capitale del Mali. Sono da poco passate le 13, di un sabato come un altro. Ha piovuto tutta la notte. Acqua attesa durante una stagione delle piogge fino ad ora avara. Un quartiere poco fuori dal centro, tagliato in mezzo, da una delle strade di maggiore traffico della città. 

Per un lungo tratto corrono paralleli anche i binari della ferrovia che da Bamako porta a Dakar. Convogli, in gran parte merci, costretti in questo tratto ad avanzare a passo d’uomo e fischiando in continuazione. Lungo i binari, tra un treno e l’altro, scorre la vita di tutti i giorni: mercati di animali, falegnami che costruiscono tavoli e sedie, bambini che giocano, pedoni che vogliono evitare la strada principale troppo trafficata. E tanti passaggi a livello, tutti incustoditi. Per fuggire dal rimbombo del traffico basta inoltrarsi in una via laterale. 

Non più l’asfalto, ma lastre di sasso cementate tra di loro. La «Rue pavé», così sta scritto su un cartello che ostenta i nomi delle organizzazioni che hanno pavimentato quel tratto di strada. Chissà perché questo bisogno di ricordare sempre che si è dei benefattori…? È un continuo incrociarsi perpendicolare di strade tutte uguali. Larghe una decina di metri. Lungo i lati, a ridosso delle case, quasi tutte a un solo piano, tanti alberi. Fronde fitte che superano di poco i tetti di lamiera. Dei grandi ombrelloni. C’è quasi imbarazzo nel proseguire il cammino perché pare di entrare in casa altrui senza essere stati invitati. È come ritrovarsi all’interno di un film ed esserne nel contempo spettatori e attori. È un mondo che ti ammanta, ma nel contempo ti fa sentire indiscreto. 

Camminando lungo le stradine si srotola la vita di tutta una comunità. Un gruppo di donne sedute davanti ai piccoli fornelli su cui bollono pentole e tegami. L’odore del carbone si mescola con quello del pesce fritto. Un gruppo di ragazzini ti supera di corsa giocando a pallone, fin quando la palla non finisce nel canale che costeggia tutte le stradine. Un acquitrino maleodorante, pieno di plastiche, rottami e immondizia. Lo recuperano in fretta. Una strisciata con il palmo delle mani sulla maglietta e si ricomincia a tirare calci al pallone sfilacciato che una volta poteva essere di cuoio. Sono tutti a piedi nudi, salvo uno che calza degli infradito di due grandezze e colori diversi.

Un invalido seduto nella sua carrozzella sta mangiando da un piatto di plastica. Come tutti senza posate, con la mano destra. Avrà una trentina d’anni, veste una tuta sportiva blu, sulla schiena la scritta di un’arma dell’esercito. Chissà? Non risponde al saluto, intento com’è a mangiare e forse anche ad ascoltare la musica attraverso gli auricolari. Da una radiolina messa davanti all’officina di un meccanico di motociclette si sente il notiziario di Radio France. Ancora morti oggi in Cisgiordania. Il meccanico, un uomo di mezza età dalla pelle scurissima, continua a lavare un pezzo di motore all’interno di una latta, forse di olio, tagliata a metà. Le mani sono inzuppate di benzina e di grasso. Tutto intorno chiazze d’olio sulla strada, gli attrezzi di lavoro disseminati ovunque. Più in là altre piccole officine meccaniche. Tutte uguali, tutte in fila, una a fianco l’altra. 

Continuo a camminare. Mi accorgo che sto sempre in mezzo alla strada, quasi non volessi invadere troppo l’una o l’altra parte di questo mondo. Un gruppo di capre improvvisamente svolta dietro a un portone. S’intravvede un cortile. Bambini, donne; i grandi catini in cui fare il bucato. Un filo di fumo che si disperde nel cielo al momento diventato un poco più sereno. Grande la voglia di entrare per vedere, per capire com’è la vita anche al di là degli usci di casa e dei muri di cinta. Ma sarebbe troppo. Non ora. Meglio continuare a camminare, rimanendo sempre nel mezzo della strada.

Incrocio una ragazza, il capo coperto da un velo. Veste una lunga tunica nera. Difficile darle un’età. È alta, longilinea, come molte donne maliane. Il suo sguardo è fisso sul telefonino mentre cammina lesta. Forse sta andando alla moschea. È l’ora della preghiera. Lo ricorda la voce del muezzin. Un richiamo discreto, come soffice è tutta la vita religiosa qui. Un islam della tolleranza. Due giovani con magliette firmate si stanno lavando per prepararsi alla preghiera. Lavarsi le mani, i piedi, il viso, le narici, le orecchie, la bocca. Un rituale che si ripete cinque volte al giorno. Un anziano è già immerso nella sua preghiera, inginocchiato sul tappeto verde e marrone. Veste di bianco, segno che è stato recentemente alla Mecca. Altri uomini stanno invece seduti in cerchio, su sedie costruite con il legno di bambù. Il loro discutere si ferma al mio passaggio. Sguardi tra il divertito e lo stupito. «Bonjour, ça va…?». Ancora un’occasione per fermarsi a fare due chiacchiere. Qui non si è mai soli. 

Inizia a piovigginare. La donna avvolta nel suo vestito giallo con rombi di un blu intenso che le copre tutto il corpo lasciando scoperte solo le spalle, non deve smontare il suo banchetto con banane e spagnolette. La proteggono le fitte fronde di un albero. Segue con lo sguardo divertita i suoi quattro bambini che giocano a rincorrersi sotto la pioggia. Sono in scala perfetta. La più piccola avrà sì e no due anni. È nuda. Solo un filo con delle perline attorno al ventre. In testa dei piccoli codini trattenuti da elastici dai colori sgargianti. 

Un uomo di mezza età nel frattempo continua a muovere un piccolo ventaglio di paglia davanti al minuscolo fornello. Appoggiata sulla brace una altrettanto minuscola teiera di smalto verde. In bocca sento il sapore di quel tè servito facendolo precipitare dall’alto in bicchieri pure loro minuscoli. Un rituale che può durare anche ore. In fondo, importante è l’essenza delle cose, non la quantità. Un pensiero che mi attraversa la mente. Un gruppo di donne sta distendendo dei grandi teli colorati su fili fissati da un albero all’altro. Colori vivi: giallo, verde, blu, azzurro si rincorrono nelle forme astratte del batik. Poco oltre, davanti a un rubinetto pubblico, tanti mastelli riempiti con bagni di diversi colori in cui galleggiano stoffe annodate. 

Lasciare la rue du pavé è come uscire da una sala cinematografica a metà film. La voglia di continuare a riempirsi di immagini, suoni, odori è molta. La sera mi accorgo di non avere scattato neppure una sola fotografia. Meglio così: là dove le stelle brillano della loro bellezza fissare delle immagini con l’apparecchio fotografico è come rubare una porzione di quel mondo, imprimerle nella memoria è chiederle in prestito. Il fotografo, quello vero, oggi invece era altrove, a leggere un’altra realtà.