Il «Sommelier ante litteram»

Il vino nella storia - Tra papi e porporati vigeva la credenza secondo cui il vino fosse addirittura medicamentoso
/ 13.03.2017
di Davide Comoli

È nelle corti rinascimentali che nasce la vera gastronomia. I rappresentanti della nobiltà (veri cultori di ciò che è bello e particolare) infatti, lo dimostrano facendo costruire fastosi palazzi impreziositi da arredi unici.

La gran vita di corte si esprime anche a tavola e il successo dei banchetti viene affidato ai cosiddetti Scalchi, una sorta di odierno maître d’hôtel, i quali coordinano gli offitiali della tavola, cioè di coloro che, a ognuno il suo, si occupano dell’approvvigionamento, dell’apparecchiare l’ambiente, del taglio delle carni (i trincianti), della selezione dei vini (i bottiglieri).

Un bottigliere passato alla storia è sicuramente Sante (1500-1560) Lancerio, sommelier ante litteram di Sua Santità Paolo III Farnese. «Bottigliere» era il nome dato agli incaricati di servire il vino, ma il Lancerio era un vero scopritore e degustatore di vini. Doveva essere molto esperto nel suo mestiere, perché di tanti vini provenienti anche da paesi lontani, descrive con dovizia di particolari il profumo, il colore, il sapore, usando una terminologia ancora oggi attuale, lodando e criticando in modo sensato. Potremmo accusarlo di essere un po’ sciovinista, perché i vini non prodotti in Italia, vengono definiti quasi tutti cattivi. Nel suo I vini d’Italia, l’autore non divaga mai dall’argomento, fatta eccezione per poche volte, per dirci dei luoghi dove insieme al buon vino si trovano anche delle belle donnette. Licenza perdonabile in quel tempo in cui non si trova niente di strano nel fatto che i Papi abbiano dei figli.

Gran personaggio questo Sante Lancerio: egli accompagnava il Pontefice in ogni suo viaggio, lo consigliava in tutto, persino sui problemi di salute, ma il suo vero compito era quello di tener conto dei vini che Sua Santità apprezzava e di quelli che rifiutava. A conti fatti, in realtà, era l’uomo di fiducia del Papa.

Gli argomenti sul vino variavano: dalla qualità si passava agli abbinamenti con il cibo, alla schiettezza del prodotto, agli effetti medicamentosi, alla pericolosità sull’organismo, alla positività dell’euforia per passare all’influenza negativa sul comportamento umano. Sante Lancerio aveva l’abitudine di fare la cronaca dei suoi viaggi al seguito del Pontefice e spesso ne rendeva partecipe tramite lettere il cardinale Guido Ascanio Sforza.

Il Pontefice non risparmiava sui vini e se li faceva mandare dalle zone d’origine. Prediligeva l’Aglianico e amava la Malvasia, quella dell’isola di Candia e in tutte e tre le tipologie: nel dolce per il dessert, vi inzuppava le ciambelline; il secco lo amava per la cena; e l’aspro lo usava come disinfettante per la gola. Paolo III era convinto come molti nel Rinascimento che il vino avesse spesso validissime funzioni terapeutiche. La cognizione del Pontefice (grazie al Lancerio) era così vasta e sofisticata che si permetteva il lusso di scegliere tra un’infinità di vini non solo come abbinamento al cibo, ma anche in accordo con le occasioni ufficiali, con i momenti privati, con le stagioni o la temperatura atmosferica e addirittura con lo stato d’animo. Trebbiano in autunno, Chiarello in estate, Rossese quando tirava la tramontana, l’Asprino per dormire tranquillo, il vino della Magliana (Cesanese) prima di una battuta di caccia. Ma di sicuro il vino favorito dal Pontefice fu il Greco di Somma, coltivato a 12 km da Napoli, come precisa il Lancerio, Sua Santità ne beveva ad ogni pasto 2 o 3 coppe e lo voleva sempre con sé, perché questo vino non patisce i viaggi e anche perché tutte le mattine S.S. ne voleva per bagnarsi gli occhi e anche le parti virili, precisa il nostro sommelier.

Insomma Paolo III beveva in tutte le occasioni: non è stato un grande Pontefice, in gloria alla Chiesa, ma di sicuro è stato il pontefice tra i più bevitori e il più bevitore tra i pontefici. 

Il parlare di Sante Lancerio, porta fatalmente alla Roma dei Papi. Capitava a volte tra i porporati che si abusasse della teoria secondo cui il vino avesse un effetto favorevole e addirittura medicamentoso. 

Con il Giubileo del 1300 arrivarono a Roma più di un milione di pellegrini. Il vino venduto in quel periodo si divideva in quattro categorie: il romanesco, coltivato nei fondi intorno a Roma; il forestiero, proveniva dal resto dell’Italia; l’ellenico di viti di origine greca; e lo straniero. Non solo gli osti compresero quanto rendesse il consumo del vino, ma anche i Papi, a cominciare da Bonifacio VIII (1294-1303) che amava il Cesanese del Piglio e impose subito regole molto severe sulla mescita e salatissime multe per i truffatori. La «gabella sul vino» fu ideata più tardi da Clemente VII (1592-1605) e fu sicuramente una delle entrate fiscali principali per la Chiesa. Nel 1450 Roma contava ufficialmente 202 osterie autorizzate, ma in realtà pare che fossero più di 1000, e la città contava 45mila abitanti. Tutt’intorno le colline erano un mare di vigne, con tanta abbondanza. 

Questo ci porta a una logica conseguenza: ovvero che non solo i cittadini, ma anche i successori di Pietro, non fossero insensibili ai piaceri del frutto della vite, senza essere irriverenti nei confronti della Chiesa. Agostino Parravicini Baglioni nella sua La vita quotidiana alla corte dei papi ben scrive di questo. Giulio II (1503-1513) quando si sentiva indisposto beveva come «medicina» un boccale di vino generoso; da malato grave, volle bere nonostante la proibizione dei medici, i quali furono rinchiusi a Castel Sant’Angelo per la loro insistenza nel negare il vino, pare invece che a ridonare la salute al vizioso Pontefice fu la cura a base di dolce Malvasia.

I vini che giungevano nelle cantine e poi venivano serviti alle tavole Papali, erano vini di alta qualità che arrivavano a Roma da terre lontane, soprattutto dopo il ritorno dei Papi da Avignone. Urbano V portò con sé a Roma, il 16 ottobre 1367, 60 botti di vino proveniente da Beaune, da Lunel e dal sud della Francia. Il vino, come aveva suggerito il Petrarca esortando il Papa a ritornare in Italia, arrivava dalla Città Eterna per via mare e risaliva poi il Tevere.

Senza ricorrere all’alibi della medicina, Paolo IV (1555-1559) se la godeva a tavola, si narra che venissero servite non meno di 25 portate. Di lui l’ambasciatore Bernardo Navagero scrisse: «Beve molto di più di quello che mangia» e continua «è un vino nero, possente e gagliardo, tanto spesso che lo si potria tagliare». Il vino è identificato come il Mangiaguerra, vitigno coltivato presso Avellino da dove era originario il Pontefice.

Gli eccessi consumati nel segreto delle celle papali, non devono però dare del Rinascimento un’idea di smodate e irresponsabili abitudini enoiche, la moderazione veniva raccomandata nelle prescrizioni mediche, nei trattati sui vini e nei saggi sul buon vivere.