Sono le 10.41 dell’8 dicembre, giorno dell’Immacolata. Il sole fa capolino dietro la Mota Bèla e poi, piano piano, liberatosi dall’impaccio scuro della montagna, inonda di luce il fianco destro della valle della Moesa. Alcuni raggi con fare curioso s’infilano nelle finestre a lunetta della cappella di Valdort ravvivando il pulviscolo dorato sospeso sulle teste della gente. All’improvviso, due dischi di luce, uno rosso e l’altro blu, si stampano sul bianco della parete e iniziano a muoversi, lentamente, verso la pala d’altare, che raffigura la Madonna Immacolata a cui è dedicato l’oratorio. Il cerchio rosso, più veloce, rincorre quello blu e, mentre i presenti, con il naso all’insù e il fiato sospeso, seguono quel magico fenomeno luminoso, lo raggiunge, gli si sovrappone, fondendosi in esso e generando una palla di luce bianca sulle mani congiunte sul seno della Vergine Maria. Sono le 10.57. L’atmosfera si rilassa, la gente si anima, commenta, libera l’emozione, rivive l’avvenimento sullo schermo dello smartphone, mentre il disco rosso e quello blu riprendono il loro lento cammino, allontanandosi verso il lato opposto dell’altare.
Valdort è un grumo di costruzioni adagiate su un terrazzo naturale, a metà strada tra Verdabbio, di cui è frazione, e Leggia, in Mesolcina. Un tempo qui si viveva stabilmente e in (quasi) completa autarchia. Si coltivavano frumento, orzo, grano saraceno, segale, patate e verdure. Si piantavano la vite e i noci, mentre i boschi fornivano un alimento indissolubilmente legato alla civiltà contadina, le castagne, il cui albero è introdotto nelle nostre terre dai Romani.
A testimoniare la presenza permanente della gente nel nucleo, la chiesetta edificata alla fine del XVII secolo (una data, 1696, è incisa sul pavimento in pietra) e tutti quegli elementi indispensabili per il ciclo produttivo dell’economia tradizionale: un mulino diroccato, l’alambicco, un lavatoio, un grotto in cui si conservava il latte, l’abbeveratoio e il torchio, con l’antica trave di castagno, tanto enorme che ci si chiede come avranno fatto a portarla lì, in quella piccola costruzione che la contiene appena. Pare sia il più vecchio della valle, appartiene da generazioni alla famiglia Salvini, ma era usato da tutta la comunità per la torchiatura delle vinacce, in seguito distillate nell’alambicco.
In un angolo, una doppia pila (1) scavata nella pietra, in cui si pestavano le noci riducendole in una poltiglia, che veniva poi torchiata per estrarne l’olio. Il nucleo si completa con alcune case d’abitazione, ora ristrutturate e trasformate, circondate da vecchi filari di vigna, dalla cui coltivazione si ottiene il Valdort, rosso e bianco, un vino morbido e profumato ben diverso da quello che si produceva un tempo quassù, più duro e acerbo, che però sembra fosse ideale per la salamoia in cui si mettevano a marinare i presùtt, i rinomati prosciutti della Mesolcina, a cui conferiva un impareggiabile sapore.
Intanto, la «corsa» del rosso e del blu si è ormai persa nell’ombra al di là dell’altare e quell’alone di magia che aleggiava sul fenomeno si è stemperato nei bicchieri di Valdort, che i convenuti sorseggiano sul sagrato della chiesa. Dopo il restauro dell’oratorio, voluto dall’allora parroco don Mario Gasparoli e portato a termine all’inizio degli anni Novanta del secolo passato dall’architetto Gabriele Bertossa, dal 1996, nel giorno dell’Immacolata, si può assistere (sole permettendo) al luminoso sortilegio, che altro non è che un estroso e rigoroso gioco di specchi ideato dall’artista Reto Rigassi (2).
La ricorrenza (3) non è però il solo motivo che mi ha richiamato qui, in questa limpida giornata dicembrina. Se l’enigma della luce si è infranto contro le spiegazioni “tecnico-artistiche-simboliche” di Reto Rigassi, altri misteri mi attendono lassù, in alto, nei boschi sopra Verdabbio.
Lascio Valdort seguendo un sentiero che sale verso il paese. Incontro subito uno dei tanti grotti che qui raccontano della vocazione viti-vinicola del versante solatio della montagna (4). È stato scavato sotto un immenso masso da tale Salvini Gerolamo detto Sciarabàn, nel 1800, come recita la curiosa scritta sopra la porta d’entrata.
Ancora un paio di curve e mi ritrovo su una strada asfaltata. Da lì, parte un sentiero che raggiunge Verdabbio affiancando i vigneti.
Sulla piazza del villaggio, un cartello indica dove andare. È marrone con la scritta bianca, «Massi cuppelari (sic) Schalensteine», e segnala l’inizio di un percorso escursionistico da poco inaugurato, il Sentiero dei massi cuppellari.
Ci sono luoghi in cui si annida il mistero, dove la terra libera sorgenti o sprigiona straordinari flussi di energia. L’uomo li conosceva fin dalle epoche più remote e li associava al sacro, al mito, al soprannaturale, poi però questo sapere si è sedimentato tra le pieghe del tempo, che, richiudendosi, li ha condannati all’oblio. Fino a quando qualcuno, animato da un’insaziabile curiosità, li ha riportati alla luce. E quel qualcuno, nel nostro caso, è Franco Binda, mesolcinese d’origine e locarnese d’adozione, il quale, pungolato dalla lettura di una semplice citazione (5), inizia una minuziosa ricerca sul territorio della Svizzera italiana, che durerà oltre trent’anni e che lo porterà a scoprire e catalogare centinaia di incisioni rupestri o, più precisamente, i cosiddetti «massi cuppellari».
Verdabbio ne ha una bella collezione. Una ventina, quelli repertoriati, disseminati in una vasta zona nel bosco sopra il paese.
Dalla piazza, il viottolo acciottolato sale in mezzo alle case, tra orti e muri a secco. Lasciato l’abitato, continua fiancheggiato da muri ricoperti di sterpaglie, a cui si appoggiano castagni secolari, che qua e là sembrano comprometterne la stabilità. In altri casi, gli alberi, grossi e nodosi, fanno un tutt’uno con le pietre e non si capisce se hanno costruito il muro attorno al tronco o se è quest’ultimo che ne ha fagocitato i sassi.
Fatte poche centinaia di metri, ecco un grosso masso con, a fianco, un cartello rosso con il numero 13. Sulla sua superficie levigata, c’è una decina di coppelle, incisioni emisferiche della dimensione di un due e di un cinque franchi. Continuo a salire affidandomi alla cartina pubblicata dal comune di Verdabbio e, poco oltre, sopra l’incrocio del sentiero con la strada forestale, ne scopro un altro, contrassegnato con il numero 12. È una roccia plasmata dall’erosione glaciale, anch’essa punteggiata di coppelle di varie grandezze.
Ma che cosa sono i massi cuppellari e che cosa rappresentano le incisioni che li ricoprono, chi le ha fatte, quando, con quale scopo? Domande, queste, a cui sembra impossibile dare una risposta precisa, storicamente e scientificamente provata, ma che hanno prodotto ipotesi a profusione. «A puro titolo di curiosità - scrive Franco Binda- ne cito alcune, tolte dall’abbondante letteratura, nessuna di esse tuttavia, è stata scientificamente convalidata. Per esse (le coppelle) si è parlato di: piccoli contenitori di offerte alla divinità, simboli di culti solari, rimembranze di defunti, immagini di costellazioni, calendari astronomici, indicatori di direzione, incavi recenti fatti per gioco o per passatempo, oppure semplicemente l’atto di incidere come forma di preghiera, senza che al segno fosse attribuito un significato specifico» (6).
Sono diffusi in tutto l’arco alpino, questi segni arcani, ma non solo; le civiltà del mondo intero hanno manifestato con le incisioni rupestri le loro primitive espressioni simboliche. In alcuni paesi i petroglifi sono piuttosto elaborati, con figure antropomorfe, forme animali, spirali, labirinti… Nella Svizzera italiana, invece, si tratta soprattutto di coppelle, a volte accompagnate (o collegate) da canaletti e croci di varie fogge, per lo più di tipo greco o a pomelli. Le si possono trovare su massi e rocce d’origine glaciale, di solito in posizione panoramica e spesso accanto ai sentieri e ai percorsi delle transumanze.
Ed è appunto il vecchio sentiero che da Verdabbio porta ai monti, quello che sto seguendo. In zona Bertilon, ecco altre tre pietre incise: una lastra di granito con 13 coppelle, 10 croci e 6 canali, un’altra con dei segni meno visibili. «Il luogo marca il confine tra il territorio privato e quello pubblico- leggo sul dépliant edito dal comune promotore della valorizzazione di questi misteriosi reperti- cioè il passaggio tra terreno lavorato e terreno selvatico (bosco= terra di nessuno) vale a dire terra senza legge» (7).
Su una terza pioda ci sono segni più «recenti», che marcano la delimitazione dei terreni.
Pochi passi ancora ed ecco il Sass de Natal, con coppelle grandi e profonde, scoperto da Binda la vigilia di Natale del 1989. «Il suo ritrovamento fu come un regalo inaspettato, che premiava la costanza nella ricerca, per questo mi piace ricordarlo con il nome di "Sass de Natal"» (8).
Ma i massi più interessanti li incontrerò tra poco. Dopo una ripida salita, il sentiero raggiunge il suo limite superiore, prosegue per alcune centinaia di metri pianeggiante, per poi iniziare la discesa dopo il masso numero 7. Quest’ultimo, proteso sul bosco sottostante, offre una vista spettacolare sulle montagne innevate della Val Cama. Ha delle incisioni miste, con coppelle e croci greche e latine.
Anche il significato della croce non è del tutto chiaro. Trattandosi di un simbolo attestato fin dall’antichità più remota, non ha necessariamente un’accezione cristiana. Numerose le ipotesi, nessuna delle quali comunque risulta provata. In alcuni casi, risalenti soprattutto al Medio Evo, l’incisione di questo segno universale, potrebbe rappresentare il gesto di cristianizzazione di un luogo o l’atto di scongiurare ciò che è considerato pagano.
E i massi cuppellari sono sempre stati ritenuti dalla chiesa il prodotto di demoniaci culti pagani e per questo combattuti e identificati spesso con nomi che richiamano il mondo dell’occulto e del soprannaturale, come il Sass del Diavol, o il Sass dell’Orch, che incontrerò tra poco scendendo verso Verdabbio. Prima però, c’è quello più straordinario dell’intero percorso: l’Ascitt del Pian de la Conca.
Chiamato anche il Santuario, per la sua posizione dominante, sembra sia uno dei più grandi della Svizzera italiana, con una superficie di oltre 100 metri quadrati ricoperta di 160 incisioni: coppelle e croci, ma anche triangoli, un segno alberiforme e un altro che richiama un arco. Ascitt sta per «spaccato» e infatti l’imponente macigno è divorato da una larga crepa e da una caverna che lo attraversa. All’entrata che guarda verso la valle e il sorgere del sole, ci sono altre incisioni.
Il luogo è impregnato di energia e di un’atmosfera misteriosa, che rimanda, come sosteneva lo studioso tedesco di arte rupestre Herbert Kuhn, a «un mondo lontano della magia, della leggenda e del mito».
Il sentiero ora scende nel bosco di castagni, ovunque ci sono rocce e macigni affioranti che rivelano come il pendio sopra Verdabbio sia il risultato di un’immane frana preistorica, colonizzata dalla fitta vegetazione. Qui scopro gli ultimi due massi. Il primo, racconta la leggenda, è stato preso a cornate dal diavolo, che vi ha lasciato il segno.
Il Sass dal Diavol presenta infatti una cavità che ricorda vagamente il faccione del maligno, con tanto di corna. L’impronta è dovuta all’erosione naturale, ma passandoci vicino mi piace ricordare il racconto che ha dato il nome al sasso, una leggenda, la cui struttura si ritrova in narrazioni del genere tramandate in numerosi altri paesi. Il diavolo vuole punire gli uomini, colpevoli, in questo caso, di abbandonare i terrazzi montani per stabilirsi al piano. Prende un macigno trovato nei boschi di Verdabbio, con l’intenzione di scaraventarlo a valle e distruggere il ponte costruito sulla Moesa. A quel punto interviene la Madonna, che ferma il sasso e l’azione malvagia. Il diavolo, infuriato, prende a cornate il masso su cui, da allora, è rimasto il segno.
È stato invece un orco a dare il nome al masso erratico, che mi si presenta poco più sotto, ad una curva del sentiero. Peserà una decina di tonnellate e se ne sta lì in equilibrio instabile, appoggiato ad una sporgenza rocciosa. È il Sass de l’Orch, che fino al 2015 si poteva muovere con una semplice pressione della mano. È scavato da diciassette incisioni: coppelle di varia misura e una croce.
Il sentiero si ricongiunge infine con l’itinerario d’andata e da lì ridiscendo in paese. Mi rimane ancora un masso da vedere, separato dagli altri, lo si trova lungo la vecchia mulattiera che scende verso i Piani di Verdabbio. Ha una quindicina di incisioni a coppelle ed è integrato nella base della Cappella della Riva, un’edicola del 19esimo secolo, di bella fattura, ma i cui affreschi risultano ormai cancellati. Anche la cappella è un segno che l’uomo ha lasciato sul territorio in cui era circoscritta la sua vita, un segno logorato dal tempo e dagli elementi, ma un segno oggi ancora comprensibile, come lo sono i tanti muri a secco o i caràsc (9) abbandonati, che una volta avevano sostenuto le viti e che ormai sono inghiottiti dall’avanzare del bosco. Il «tempo» delle incisioni rupestri, invece, è troppo lontano da noi e la memoria delle loro origini e del loro significato è andata (forse) inesorabilmente perduta, così come il codice di lettura di queste arcane e straordinarie rappresentazioni.
Note
1) Pila: mortaio in pietra usato per frantumare vari tipi di granaglie
2) Vedi l’articolo L’Immacolata di Valdort, di Oliver Scharpf, «Azione 01», 9 gennaio 2017, pag.6
3) Il «fenomeno luminoso» si verifica anche il 4 di gennaio, con una quindicina di minuti di differenza.
4) A sottolineare questa vocazione anche lo stemma del comune su cui troneggia un grappolo d’uva.
5) «Dal libro di Erwin Poeschel "Die Kunstdenkmäler der Schweiz" mi capitò di leggere questa frase: "Un masso preistorico con sette croci e otto coppelle è posto a 150 m sopra la chiesa di Cabbiolo" (Cabbiolo, frazione di Lostallo, mio paese d'origine). Lì per lì non seppi immaginare quale imprevedibile impatto la citazione avrebbe avuto sul futuro del mio tempo libero. Il termine "preistorico", forse impropriamente usato dall'autore, fu più che sufficiente a suscitare nel mio immaginario un'atmosfera magica e stimolante». Da Le incisioni rupestri nella Svizzera italiana, art. di Franco Binda in Bollettino dell’Associazione archeologica ticinese, 14, 2002
6) Franco Binda, Archeologia rupestre nella Svizzera italiana, Armando Dadò Editore, 1996, pg. 45
7) http://www.verdabbio.ch/upload/Comune-di-Verdabbio/Allegati/massi-cuppellari-opuscolo.pdf
8) cfr. Archeologia rupestre…., pg. 190
9) «Caràsc», palo in granito su cui poggiavano le pergole.