Il ritorno dei viaggi organizzati

Viaggiatori d’Occidente - Il turismo di massa non è un male in sé, dipende da come lo si fa
/ 25.11.2019
di Claudio Visentin

Negli anni Cinquanta del Novecento siamo diventati tutti turisti. Anche chi viveva nel Nord Europa, grazie ai nuovi aerei a reazione (messi a punto negli ultimi mesi di guerra), poteva raggiungere in poche ore il sud, il sole, in una parola la Spagna. Si affermò una nuova idea di vacanza legata alla vita di spiaggia, creata negli anni Venti sulla Costa azzurra da ricchi americani: lunghe giornate in cerca dell’abbronzatura perfetta, i cocktail sul bordo della piscina, le cene in terrazza, il jazz in sottofondo, i flirt.

In quegli anni, per rispondere a una domanda crescente, le agenzie di viaggio si trasformarono in Tour Operator e cominciarono a produrre su vasta scala viaggi tutto compreso. Un ottimo esempio, alle nostre latitudini, è Hotelplan. Ai viaggiatori poco esperti – allora la maggioranza – sembrò un sogno. L’agenzia prenotava il volo, l’albergo e tutti gli altri servizi; e anche il villaggio era un ambiente protetto, divertente, facile, dove rilassarsi per una settimana. Non c’era neppure bisogno di conoscere le lingue o le abitudini locali, dato che le strutture nei diversi Paesi erano organizzate più o meno tutte allo stesso modo.

Poi il vento ha cambiato il suo giro e l’immagine dei viaggi organizzati è peggiorata, diventando sinonimo di edifici anonimi, spiagge affollate, buffet internazionali, una separazione completa dai residenti: i diversi volti di un turismo che devasta l’ambiente e lascia poco o nulla alla comunità locale.

Nel frattempo nuovi collegamenti aerei hanno reso accessibili destinazioni un tempo quasi irraggiungibili. Una migliore conoscenza delle lingue e il desiderio di condividere la vita dei locali ha fatto il resto. E così il viaggio indipendente è diventato la nuova moda.

Tutto giusto? Non è detto.

Per cominciare il viaggio indipendente non è il rimedio a tutti i mali. Anche partendo uno alla volta, alla fine si crea comunque affollamento nelle destinazioni. Gli abitanti di diverse grandi città – Barcellona, Amsterdam – già protestano contro l’Overtourism causato dalle compagnie low cost: gli spazi pubblici sono affollati e degradati, le case sono tolte dal mercato locale degli affitti per essere offerte su Airbnb.

Inoltre non si può essere sempre viaggiatori avventurosi. Ci saranno sempre turisti fermamente intenzionati a passare una settimana di tutto riposo (fly and flop). In sé non c’è niente di male e non sono turisti peggiori degli altri; anzi, semplicemente siamo noi stessi in alcuni momenti dell’anno, quando la fatica quotidiana lascia il segno. E dunque offrire a questi turisti un’alternativa a città già troppo affollate non può essere sbagliato.

Al tempo stesso non c’è scritto da nessuna parte che il turismo organizzato debba essere sempre com’è ora, sostiene Justin Francis, amministratore delegato di Responsible Travel in un’intervista alla CNN.

Cominciamo dai viaggi. Il volo aereo senza dubbio contribuisce al cambiamento climatico, ma si possono usare aerei più nuovi ed efficienti; inoltre i voli charter dei Tour Operator sono di solito al completo e utilizzano al massimo lo spazio (a differenza della business class delle compagnie di bandiera). All’arrivo poi i turisti usano i bus che, dopo il treno, sono il mezzo di trasporto più efficiente dal punto di vista ambientale.

Ogni altro aspetto della filiera potrebbe essere rivisto. Per esempio la ristorazione. I turisti escono raramente dal villaggio, dato che hanno già pagato per i loro pasti. Ma oggi il cibo viene acquistato sul mercato internazionale e spesso trasportato in aereo: si inquina inutilmente, la qualità è spesso modesta e ovviamente i locali sono scontenti. Tuttavia non sembra impossibile coinvolgere i ristoratori del posto e acquistare prodotti del territorio dai contadini, col risultato di offrire pranzi più interessanti e caratteristici.

Alcuni esperimenti hanno mostrato che queste scelte sono economicamente sostenibili e migliorano la propria reputazione. Per esempio a Creta nove hotel acquistano regolarmente vino, olio e pane da centonovanta agricoltori locali, mentre gli ospiti sono coinvolti in lezioni di cucina tradizionale (progetto Futuris in collaborazione con TUI, il principale Tour Operator tedesco). E se i turisti hanno poche occasioni di fare acquisti al di fuori dei resort, si possono invitare artigiani locali a presentare e vendere i loro prodotti. Infine anche nelle escursioni si potrebbero preferire guide locali, dopo averle formate e avendo però cura che non portino gli stranieri nelle solite «trappole per turisti» solo perché ne ricavano una commissione.

È più facile introdurre queste novità dove si parte da zero. E quindi i villaggi vacanza del futuro potrebbero essere costruiti con meno cemento, materiali e architettura del territorio, uso attento delle risorse (specie l’acqua), energie rinnovabili, corretto smaltimento dei rifiuti eccetera. E magari gli artisti locali potrebbero decorare gli spazi con le loro opere.

Certo ci vuole tempo e pazienza per cambiare abitudini consolidate, ma è anche vero che un turismo organizzato senz’anima e senza identità finisce per appiattirsi solo sul prezzo, inevitabilmente sempre più basso per reggere la concorrenza. Un evento simbolico, qualche settimana fa, è stato il fallimento di Thomas Cook, cioè proprio l’azienda che organizzò il primo viaggio tutto compreso nel lontano 1841. Ma c’è spazio per un nuovo Thomas Cook, per un nuovo turismo organizzato e per chi saprà realizzarlo.