La Bolivia riesce a essere tanto vicina al cielo da sembrare il paradiso, quanto incarnare il volto dell’inferno. È un paese carico di storia, di eventi grandiosi e dolorosi al tempo stesso. Geograficamente remota per noi europei oggi, eppure così vicina per l’importanza che ebbero e che continuano ad avere le grandi risorse minerarie nascoste nel suo ventre.
Un viaggio in Bolivia ha un che di dantesco. Ma al contrario.
Lasciata la frontiera con l’Argentina, il Salar de Uyuni appare come una landa ultraterrena. Si trova tra i dipartimenti di Potosí e Oruro, a un’altezza di 3656 metri s.l.m. Manca il fiato, un po’ per la meraviglia di fronte allo spettacolo della natura, un po’ per l’altitudine. Le nuvole si riflettono nell’acqua che, nel periodo delle piogge tra dicembre e marzo, invade l’immensa distesa di sale: 10’582 chilometri quadrati, la più vasta al mondo. Tutto si duplica. E le persone fluttuano come sospese tra cielo e terra. La superficie del salar è così vasta e piatta, sovrastata da cieli così limpidi, che viene utilizzata dalla NASA per calibrare gli altimetri dei satelliti in orbita. Uno specchio bianco, abbacinante, che contiene una crosta di sale spessa da pochi centimetri a 10 metri, quel che resta di un lago preistorico, oggi ridotto a lago salato. Si calcola che ci siano 10 miliardi di tonnellate di sale (25mila estratte annualmente). E non solo. Magnesio, potassio e un terzo delle riserve conosciute di litio del pianeta (quel materiale che fa funzionare le batterie dei nostri computer, per intenderci).
Il salar si trova in una cosiddetta zona di transizione climatica: gli enormi cumuli e cumulonembi tropicali, che si formano nella parte orientale del salar durante l’estate, non riescono a penetrare oltre le sue sponde occidentali, secche e asciutte, vicine al confine cileno. Gli unici che sembrano gradire il clima sono gli uccelli: ben 80 specie di migratori passano da queste parti, compresi tre tipi diversi di fenicotteri che qui si riproducono. Sulle poche isole che punteggiano il lago salato troviamo solo cactus.
Atmosfera ancor più surreale tra gli scheletri dei vagoni che popolano il cimitero dei treni a Uyuni. Utilizzate fino agli anni Quaranta, le locomotive sputano solo nuvole, i convogli che un tempo servivano per l’industria mineraria oggi sono ruggine pura su binari che non portano più da nessuna parte.
Il turismo, da queste parti, è una voce importante dell’economia, ma come sempre la ricerca della sostenibilità è un’impresa difficile. Il deserto resta un ambiente fragile. La plastica vaga per chilometri sospinta dal vento, soffocando quel poco di vita che con fatica e tenacia cerca di affermarsi. Per questo nel 1973 fu creata la Riserva nazionale di fauna andina Eduardo Avaroa: un’area protetta di 7147 chilometri quadrati che coprono la regione più meridionale del paese, la quale ospita anche 23 specie di mammiferi, tra cui puma, volpi delle Ande e viscacce, alcune delle quali minacciate, come la vigogna, il suri, il condor delle Ande.
La priorità qui è la salvaguardia del delicato habitat lagunare, fondamentale per la vita di molti uccelli, e la protezione dell’ecoregione della puna (steppa montana, semi-desertica, diffusa fra i 3000 e i 5000 m nelle alte regioni andine di Cile, Bolivia e Argentina) delle Ande centrali. Situata a un’altitudine tra i 4200 e i 5400 metri s.l.m., comprende alcune delle icone paesaggistiche della Bolivia. Si parte con la Laguna Colorada, sede di un National Wildlife Sanctuary, 60 chilometri quadrati, a 4278 metri s.l.m. Colorata perché i microorganismi che vivono in superficie reagiscono in modo coreografico al vento e alla luce. L’acqua è bassa, appena un metro di profondità, sufficiente a sostenere le 40 specie di uccelli che si aggirano da quelle parti, ma soprattutto ricca di alghe rosa che nutrono i delicati fenicotteri di James, che vi scorrazzano in lungo e in largo. Si tratta di una specie a rischio, classificata come prossima alla minaccia, dopo che la popolazione mondiale, stimata in 100mila esemplari nel 2005, ha subito una forte riduzione a causa della caccia e dell’inquinamento che sta minacciando il suo habitat. Qui nella laguna Colorada ha uno dei suoi principali siti di riproduzione.
A meno di venti chilometri da qui, troviamo un’insolita formazione di rocce isolata tra le dune di sabbia di Siloli, denominata Árbol de Piedra, scolpita dal vento e dall’erosione. Altro punto caldo, in tutti i sensi, è Sol de Mañana, un campo geotermale attivo che si estende tra i 4800 e i 5000 m.s.l.m. Pozze di acqua e fango bollente, colonne di vapore, sorgenti sulfuree. L’alba qui è particolarmente suggestiva. Nei vari tour che le guide locali mettono a disposizione all’interno della riserva, si visitano anche la Laguna Verde e la Hedionda, circondate da montagne alte tra i 3500 e i 5000 metri, deserti colorati di sabbia e rocce pettinate dal vento, i vulcani imbiancati di neve, solo all’apparenza silenti.
Nessuna meraviglia quindi se i numeri dal punto di vista turistico sono sempre più importanti. Tuttavia, la scarsa regolamentazione e la disorganizzazione rischiano di tramutare un’opportunità in minaccia. La regione, a causa della sua posizione remota, è sempre stata una delle più depresse della Bolivia. La mancanza di guide formate opportunamente, l’utilizzo di mezzi 4x4 obsoleti e la scarsità di strutture sta mettendo a dura prova il territorio, già minacciato dall’industria mineraria che nel resto del paese resta un’attività economica portante (ci sono ben 61 concessioni minerarie attive lungo i confini della riserva).
Negli anni Novanta l’area fu interessata dal programma PiP (Parks in Peril), promossa da The Nature Conservancy (TNC) per cercare di stimolare una sensibilità locale per la salvaguardia della biodiversità. Da allora le cose sono migliorate e sono tante le organizzazioni che si sono mobilitate a sostegno dei locali. Oggi si punta su fonti di energia rinnovabili, agricoltura e allevamento sostenibili, formazione di guardia parco e programmi di educazione ambientale per le comunità. Perché il paradiso non può attendere.